I pontieri del Pdl lavorano alla tregua tra il Cav. e Fini per salvare il salvabile

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I pontieri del Pdl lavorano alla tregua tra il Cav. e Fini per salvare il salvabile

06 Maggio 2010

Sulla scrivania di Silvio Berlusconi c’è un post-it con un appunto che recita più o meno così: verificare le condizioni per una tregua con Gianfranco Fini. E l’appello a "ricostruire il dialogo" rivolto dal Cav. ai finiani moderati guidati da Augello (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Silvano Moffa (presidente della commissione Trasporti a Montecitorio) è la conferma che al problema occorre trovare una soluzione.

Per questo i "pontieri" sono al lavoro da giorni: forzisti e aennini, ciascuno per la sua parte e con i suoi strumenti. Ma se il percorso è aperto, l’esito non è affatto scontato. L’operazione infatti è complessa perché su certi temi le distanze tra i due co-fondatori del Pdl appaiono sempre più marcate, dopo lo strappo in direzione nazionale. E’ stato quello lo spartiacque: da quel giorno il presidente della Camera ha dato seguito con particolare determinazione alla costruzione del consenso attorno alla sua "creatura": una corrente di minoranza.

Lo ha fatto in Parlamento, cercando di serrare le fila dei fedelissimi e degli scontenti (salvo costatare che i numeri non sono dalla sua) e nel territorio con l’idea dei Circoli cui chiama giovani, simpatizzanti, ma soprattutto eletti ed amministratori. Insomma "truppe" organizzate dispiegate nei punti strategici – coordinamenti locali, consigli comunali, provinciali e regionali – da dove poter esprimere ma soprattutto praticare il dissenso. Col rischio di cronicizzare uno stato di fibrillazione nel partito.

Rischio che il Cav. e lo stato maggiore del Pdl hanno ben presente e vogliono evitare. Se le condizioni per una ricucitura completa sembrano abbastanza remote, l’obiettivo è arrivare a un accordo, a un patto di non belligeranza, a una convivenza pacifica che alla maggioranza garantisca di portare a compimento il programma e al governo di realizzare nei tre anni della legislatura le riforme che servono per modernizzare il paese. 

Ma quali sono i nodi da sciogliere? Anzitutto il concetto delle quote di rappresentanza negli equilibri interni al Pdl. Nel suo intervento in direzione nazionale Fini lo ha detto chiaro: la logica delle quote (70 a 30) va superata. Facile a dirsi, molto meno a farsi.

Primo, perché il presidente della Camera punta a un riconoscimento formale e sostanziale della sua componente di minoranza rivendicando per sé quel 30 per cento che nel patto fondativo del partito unico era appannaggio di An, ma che dopo il posizionamento dei colonnelli nelle schiere berlusconiane lui non considera più valido.

Secondo, perché in molti non comprendono la logica di formalizzare una corrente in un partito dal quale le correnti sono state bandite per statuto. Terzo, perché assegnare una quota di rappresentanza ai finiani significherebbe dover rimettere mano agli assetti interni del partito e dei gruppi parlamentari (nomine e incarichi annessi).

Va inoltre considerato un altro aspetto: da un lato c’è l’area ex An dove prevalgono i colonnelli e la loro "forza" territoriale, dall’altro c’è il presidente della Camera il quale esercitando le prerogative che il regolamento di Montecitorio gli assegna, svolge un ruolo importante nella gestione dei lavori d’Aula e non solo. A questo si aggiunge il fatto che potendo contare almeno su una ventina di parlamentari fedelissimi, sul piano politico è in grado di far valere il proprio "peso" sui provvedimenti del governo, specie quelli strategici – vedi la giustizia – sui quali le divergenze col Cav. sono palesi.

Il problema di Berlusconi, in questo momento, è muoversi tra "Scilla e Cariddi", ovvero tenere in piedi la legislatura siglando un accordo con Fini ma al tempo stesso evitando di penalizzare i colonnelli di An, ormai distanti dal loro ex leader. E se il Cav. dovrà destreggiarsi in questa non facile situazione – è il ragionamento ai piani alti di via dell’Umiltà – l’inquilino di Montecitorio non può permettersi di far saltare il banco perché correrebbe il rischio di passare per "sfascista" e, al tempo stesso, di estremizzare la contraddizione che già adesso appare evidente tra il ruolo istituzionale e quello politico di capocorrente.

Altro elemento del quale i pontieri dovranno tenere conto è il livello di disponibilità dei colonnelli aennini a "trattare" con Fini, magari accettando qualche passo indietro necessario per arrivare all’obiettivo. Nelle file Pdl c’è chi non lo vede come un problema e si dice convinto che a prevalere sarà il senso di responsabilità e la consapevolezza che dalla tregua con Fini può dipendere una parte del destino della legislatura.

Tra i nodi da sciogliere, infine, c’è il rinnovo delle presidenze di commissione alla Camera in scadenza tra due settimane. Tema non di poco conto, dal momento che i finiani siedono su alcune poltrone strategiche. Una su tutte: la commissione Giustizia guidata da Giulia Bongiorno. E’ facile ritenere che la verifica sulle condizioni della tregua passerà anche da qui. Vedremo in che direzione lavoreranno i pontieri pidiellini e quali risultati porteranno le prove tecniche di dialogo.

Un fatto è certo: se si guarda al taccuino quotidiano della politica, l’accordo tra il Cav. e Fini è tutto in salita. Ieri il presidente della Camera da Tirana ha rispolverato il suo cavallo di battaglia nel confronto aperto nel Pdl: la cittadinanza agli immigrati regolari. Ha annunciato che il testo della legge "a giugno sarà in Aula alla Camera. La conferenza capigruppo l’ha già calendarizzato. L’Aula lo esaminerà anche se sul testo non c’è una grande intesa", sottolineando che si tratta di "un problema politico che al momento evidenzia divisioni sia tra maggioranza e opposizione che all’interno della maggioranza".

L’auspicio di Fini è che "entro l’estate ci sia una decisione", ma la sua esternazione ha riaperto un dibattito mai sopito nella maggioranza e provocato reazioni immediate da Roma. Se il finiano doc Fabio Granata (firmatario di una proposta di legge ad hoc insieme al Pd Andrea Sarubbi) rilancia le parole del presidente della Camera intravedendo la possibilità di "un’intesa alta alla Camera per scrivere una pagina decisiva della nuova Italia" (il riferimento è all’opposizione), è anzitutto dai colonnelli di An che arriva uno stop deciso.

Il presidente dei senatori Maurizio Gasparri avverte: "Resta valido il principio dello ius sanguinis e dei dieci anni di permanenza in Italia per presentare domanda di cittadinanza. Questi giusti principi vanno mantenuti e la destra ne sarà garante in Parlamento". Gli fanno eco gli ex An Maurizio Bianconi (vicepresidente dei deputati) per il quale "porre il diritto di cittadinanza come strumento di integrazione significa ignorare i fondamentali giuridici e sostanziali della materia" e Viviana Beccalossi (coordinatore provinciale del Pdl Lombardia, vicina a La Russa) convinta del fatto che "la cittadinanza non è un diritto, ma insieme un diritto e un dovere e dunque va conquistata e non può prescindere dal rispetto delle regole: un fermo no alla bigamia, al burqa, alle violenze sulle figlie femmine che si sottraggono alla cultura di origine. Solo partendo dai no, senza se e senza ma si può parlare di diritti".

Lapidaria ma eloquente la sottolineatura di Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl a Montecitorio, che rimanda la questione al pronunciamento del partito e dei gruppi parlamentari. Un modo per ribadire che a valere saranno le decisioni della maggioranza, non il contrario.

Buon lavoro ai pontieri del Pdl.