I privilegi dei dipendenti pubblici si possono abolire con più produttività
11 Gennaio 2011
di redazione
Diamo un’occhiata al mondo: le forze si stanno raccogliendo. Da una parte ci sono i secondini californiani, i poliziotti britannici, i ferrovieri francesi, i funzionari pubblici greci oltre chiaramente agli onnipresenti insegnanti. Dall’altra ci sono i governi dei paesi ricchi per modo di dire (ormai poveri in canna). La men che minima menzione dei tagli alla spesa ha spinto i lavoratori del settore pubblico nelle strade di tutta Europa. Il giorno che quei piani diverranno realtà, aspettiamoci di tutto.
Il dato significativo emergente da questo quadro è che le “relazioni industriali” sono di nuovo al cuore della politica. Ma non più nella vecchia configurazione di scontro tra capitale e lavoro (mostratosi prepotentemente negli anni ottanta di Margaret Thatcher) bensì in modo del tutto nuovo: si manifesta oggi in uno scontro tra i contribuenti da una parte e quelli che William Cobbett, uno dei più ‘devoti’ liberali britannici, definiva “gli ingoia-tasse”. Le persone del settore privato si stanno alla fine rendendo conto – e mai come in questo momento – quanto negli ultimi anni i sindacati abbiano banchettato sul tavolo del settore pubblico a loro diretto danno.
In molti paesi ‘ricchi’ i salari sono in media più alti nel settore pubblico, le pensioni sono incredibilmente migliori e il lavoro decisamente più sicuro. Per quanto anche il pubblico possa contare del dedito sforzo di molti, la riforma del settore è stata (ed è tutt’ora) bloccata con ogni mezzo e per molto a lungo dai sindacati. Tanto in America che in Europa per mandare a casa un fannullone o per remunerare un’eccellente insegnante si incontrano le stesse incredibili difficoltà.
Mentre l’appartenenza ai sindacati nel settore privato si è contratta significativamente negli ultimi trent’anni (dal 44% della forza lavoro al 15% in Gran Bretagna e dal 33% al 15% in America), è rimasta molto forte nel settore pubblico. In Gran Bretagna quasi la metà dei lavoratori del settore pubblico sono sindacalizzati. In America il dato è oggi la 36% (si pensi che nel 1960 la quota era del 11%). In buona parte d’Europa continentale una significativa porzione dei servitori pubblici appartiene a un sindacato, benché ciò sia vero per coloro che si muovono anche dal pubblico al privato e viceversa. Ma nel settore pubblico il potere dei sindacati è ingigantito non solo dall’abilità nella convocazione di scioperi capaci di chiudere i battenti di monopoli di cui tutti hanno bisogno (senza però mandare al fallimento il loro datore di lavoro), ma è dato anche dalla loro influenza sui datori di lavoro stessi: i politici.
Molti partiti occidentali di centro-sinistra sono sostenuti dai sindacati. Il Labour Party britannico ottiene l’80% dei propri fondi da sindacati forti nel settore pubblico (i quali, di fatto, ne scelgono anche il loro nuovo leader). La secca sulla quale si è arenata la riforma spagnola del settore pubblico può essere spiegata anche con l’appartenenza sindacale del suo primo ministro. In America gli insegnanti da soli hanno portato 1/10 dei delegati alla Convention Democratica del 2008. Gli stessi sindacati di oggi dimostrano però maggiore abilità politica rispetto a una volta: i difensori di questi particolari interessi ‘pubblici’ non si mostrano più in guisa di corpulenti minatori alle prese con slogan rievocanti Trotsky, ma si mostrano con i dolci visi di donne appartenenti alla classe media, spesso nascoste dietro calme e ‘utili’ sigle come la National Education Association (gli insegnanti americani) o la British Medical Association.
I politici hanno per troppo tempo ceduto, spesso in fretta, sull’aumento delle pensioni dei dipendenti pubblici, a cui non solo non si è stata accompagnata alcuna contropartita, ma se possibile il costo sociale ne è stato rincarato da aumenti di vacanze e riforme cestinate. Si dica inoltre che le paghe del Pubblico non sono neanche molto aumentate. E’ comunque cruciale che la battaglia nel settore pubblico sia vinta sul fronte giusto. Questo vuole dire che, nell’oceano di dolore che si apre innanzi a noi, sta anche una grande opportunità: ridefinire il ruolo dello Stato. Questo significa concentrarsi non solo sul taglio dei costi ma anche su aumenti di produttività e sul miglioramento dei servizi. In certi casi questo potrebbe voler dire pagare le persone migliori di più: una delle ragioni per le quali Singapore detiene uno dei migliori servizi pubblici al mondo è che alcuni dei suoi dipendenti vengono pagati più di 2 mln. di dollari all’anno.
La prima battaglia sarà combattuta sui benefit e non sulle paghe. Su questo fronte la questione è di parità. Oltre a vacanze spesso incredibilmente generose, la vera questione rimane il nodo delle pensioni. Troppi dipendenti pubblici possono andare in pensione a metà dei loro cinquant’anni, con la certezza di ottenere un montante mensile molto vicino all’ultimo stipendio percepito in attività. L’insieme degli Stati d’America portano il peso di circa 5 trilioni di dollari in obblighi pensionistici non forniti di copertura finanziaria. Tali obblighi pensionistici devono essere onorati (e debitamente contabilizzati nel bilancio dei governi piuttosto che stornati chissà dove). Se ciò che è stato è stato, non esiste ragione però per continuare su questa via. L”età minima di pensionamento dovrebbe essere di sessanta cinque anni per le persone che spendono la loro vita nelle classi scolastiche e negli uffici pubblici; le pensioni dei ‘nuovi’ servitori pubblici dovrebbero maturare in un regime pensionistico con un piano contributivo definito o defined contribution plan o DCPs (ndt. ovvero piani d’investimento dei contributi pensionistici in fase di accumulo e anche ad avvenuto pensionamento, non più vincolati a tassi di rendimento prefissati ma bensì agganciati alla remunerabilità dell’investimento effettuato di cui i lavoratore/pensionato stesso assume piena responsabilità quanto all’esito d’investimento; ai defined contrubution plan si oppongono generalmente i defined benefit plan quei piani appunto con saggi di remunerabilità prefissati).
Un altro fronte di scontro verterà attorno ai privilegi legali dei sindacati. Non è passato poi così tanto tempo da quando politici di ogni estrazione culturale manifestavano la propria contrarietà alla sindacalizzazione degli impiegati pubblici. Franklin Roosvelt sosteneva che i dipendenti pubblici dovessero essere considerati parte di un sistema di ‘relazioni speciali’ e di ‘obblighi speciali’ nei confronti del governo e del resto della comunità pubblica. Sarebbe irragionevole oggi proibire completamente i sindacati nel settore pubblico in una fase in cui i governi cercano di spingere nella direzione di servizi pubblici che assomiglino sempre di più a quelli forniti dal settore privato. Ma è certo che il loro diritto allo sciopero dovrebbe essere dovutamente limitato; inoltre le regole che disciplinano le donazioni politiche dei sindacati, oltre che la stessa sindacalizzazione dei lavoratori, dovrebbe muoversi verso una soluzione Opt-in (ndt. opzione di adesione), nella quale ogni iscritto al sindacato possa avere voce in capitolo su eventuali donazione a partiti o sulla propria adesione al sindacato stesso.
L’imperativo della Produttività
Una riforma del settore pubblico non dovrebbe degenerare però in una demonizzazione dello stesso. Dallo stato di vitalità del pubblico dipende lo stato di salute della società nel suo complesso, non fosse altro per il proprio impatto sulla crescita economica. Avere mediocri insegnanti significa avere batterie di mediocri talenti per i datori di lavoro. Permettere che un conducente di metropolitana vada in pensione a 50 anni con una pensione artificialmente inflazionata significa meno risorse in infrastrutture: per credere al nesso basti dare un’occhiata allo stato in cui versano le autostrade e le metropolitane statunitensi. Anche se alcuni dei servizi pubblici in questione sono il più delle volte dei monopoli, il capitale privato è mobile: si dirige in zone dove la spesa pubblica funziona. In un quadro di invecchiamento demografico, fattore che decreterà inevitabilmente un aumento del bisogno di Stato, la sinistra dovrebbe avere lo stesso interesse della destra in un settore pubblico efficiente (e forse anche di più vista la sua tendenza a ritenere che più Stato sia la soluzione ai mali della società).
La produttività del settore privato è molto aumentata in Occidente negli ultimi venticinque anni, anche in settori industriali molto maturi come l’acciaio e l’automobile. Alcune compagnie hanno raggiunto questo risultato perché hanno avuto la libertà di gestire (ma anche di sperimentare, di espandere innovazioni di successo, di mettere alla berlina quelle non funzionanti e di promuovere il personale di talento). I sindacati del settore pubblico hanno sempre combattuto questo genere di trasformazioni, e se possibile, hanno dimostrato una certa crudeltà nei confronti delle future generazioni quando la riforma avrebbe dovuto interessare il settore pubblico dell’educazione.
Non neghiamo che sia più difficile ristrutturare lo Stato piuttosto che il settore privato, ma anche piccoli aumenti di produttività possono condurre a grandi risparmi.
La battaglia che è alle porte dovrebbe avere a che fare con la fornitura di servizi di maggiore qualità e non solo con un taglio di risorse. Concentrarsi sulla produttività dovrebbe aiutare i politici a ridefinire il dibattito. L’imminente pensionamento dei nati nella fase del boom di nascite (i baby-boomers) è un’opportunità per assumere una nuova generazione di lavoratori con contratti differenti. I politici hanno due opzioni innanzi e saranno chiamati a prendere posizione: possono decidere di spingere, di far passare le riforme e creare così più lavoro nel lungo periodo; oppure potranno cedere ancora, tagliando più servizi e in ultima istanza alzando ancor più le tasse.
Tratto da The Economist
Traduzione di Edoardo Ferrazzani