I raid di Obama, la Libia e l’Italia
02 Agosto 2016
I raid americani a Sirte contro lo Stato Islamico aprono un nuovo (e atteso) fronte nella geopolitica della guerra al terrorismo, complicando gli assetti sul terreno in Libia e a livello delle relazioni internazionali. I raid sono stati ordinati da Obama su richiesta del governo Serraj di Tripoli, sostenuto dalle Nazioni Unite, con 18 ministri nominati ma che non sono stati ancora pienamente riconosciuti dal parlamento di Tobruk, l’altra entità che determina la politica libica. Situazione a dir poco complessa e delicatissima quella nella ex “Jamaria”, che ha provocato una dura reazione di Mosca contro la decisione degli Stati Uniti di bombardare.
Per Obama si tratta in parte di un grosso favore fatto alla candidata Hillary Clinton, che annaspa inseguita dagli scandali nella campagna elettorale Usa, e che a suo tempo da segretario di Stato visse una pagina nera della recente storia statunitense, l’assalto al consolato Usa di Bengasi. In Libia gli Stati Uniti di Obama fanno e disfanno: spalleggiarono l’intervento militare a trazione anglo-francese che rovesciò Gheddafi, non sono stati capaci di impedire che il Paese sprofondasse nel caos, situazione che ha favorito la penetrazione di Isis, ora tornano a colpire in modo unilaterale dal cielo ma non sul campo – per adesso il Pentagono smentisce l’uso di truppe di terra.
La realtà è molto probabilmente un’altra e cioè che sul campo accanto ai militari libici fedeli a Serraj ci sono da tempo consiglieri delle potenze occidentali, non solo americani, ma anche francesi e inglesi. In Libia al momento ognuno combatte pro domo sua e con i propri alleati; a Tobruk, per dire, arrivano navi canadesi per il petrolio e il Canada è un buon alleato degli inglesi. Insomma, benvenga colpire Isis ma la Libia è un Paese diviso su tutto, su base politica, tribale ed etnica, dove le grandi potenze, Russia, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Cina, oltre che Francia e Gran Bretagna, non resteranno a guardare gli Usa che, mentre bombardano il Daesh, acquistano un nuovo protagonismo da spendere nella fase futura, quando ognuno cercherà di mettere il cappello sul nuovo governo.
E noi? Per adesso il nostro problema è quello della autorizzazione del parlamento all’uso delle basi Usa in Italia, basi che, conviene ricordarlo, sono degli americani, i quali possono sempre chiedere al nostro governo di usarle. Ma la questione in gioco va ben oltre Sigonella. Il nostro Paese è il più esposto alle ondate di immigrati provenienti dalla Libia e queste ondate aumenterebbero se la situazione sulla costa sud del Mediterraneo dovesse deflagrare. Qualcuno ribatte che se Erdogan strappasse con la Germania e si riaprisse il corridoio balcanico la pressione sull’Italia diminuirebbe, ma va detto che la maggior parte degli sbarchi nel Belpaese non riguardano siriani.
L’Italia sostiene il governo Serraj. Ma siamo sicuri che, se gli alleati occidentali del premier libico passassero armi e munizioni agli “islamici moderati”, non finirà come in Siria, dove poi si è scoperto che i gruppi islamici alternativi a Isis tanto moderati non erano? Per non dire delle armi fornite dalle potenze occidentali per combattere Daesh in Siria e Iraq che spesso sono passate proprio nelle mani dello Stato Islamico (insieme al petrolio, ce n’è anche in Libia). Insomma se a Tripoli si ripetesse il fiasco siriano per il nostro Paese sarebbe la mazzata finale.
Renzi dunque ci pensi non una ma mille volte casomai a un bel punto qualcuno ci chiedesse l’utilizzo di truppe di terra. In un contesto dove l’America obamiana appare sempre più debole e divisa, e dove gli altri Paesi inseguono ognuno il proprio interesse di potenza, finiremmo per trovarci in un pantano spaventoso, aumentando anche il rischio di attentati in casa nostra: un osservatore attento come Alberto Negri paventa non da oggi una “somalizzazione” della Libia. A Tripoli ci sono state nei giorni scorsi manifestazioni di piazza contro il governo e i francesi. Intanto, in Italia, la speculazione finanziaria investe le banche che crollano. Non è un bell’inizio.