I ritardi nei soccorsi americani ad Haiti rievocano lo spettro di Katrina
18 Gennaio 2010
L’Independent è un quotidiano inglese di sinistra che non è mai stato tenero con i laburisti, e due giorni fa è apparso poco comprensivo anche con il presidente Obama e la sua gestione della crisi di Haiti. In un editoriale di Patrick Cockburn intitolato The US is failing Haiti – again, il giornale ha fatto un paragone forse un po’ troppo precoce fra la strategia adottata da George W. Bush dopo l’uragano Katrina del 2005 e la macchina dei soccorsi messa in piedi dal suo successore ad Haiti cinque anni dopo. Due fallimenti, secondo Cockburn.
In entrambe i casi “un numero davvero esiguo di soccorsi è arrivato nel momento in cui ce n’era più bisogno”, come a Port Au Prince, la capitale rasa al suolo dal sisma. I primi a muoversi sono stati i militari, americani, creando delle difficoltà ai team specialistici di altre nazioni che in alcuni casi (pochi) hanno dovuto deviare i loro voli verso altri scali vicini, dopo che si erano visti negare l’atterraggio dal comando Usa, com’è accaduto ad un equipaggio di Medici senza frontiere. Le critiche non si placano. Ieri, il Quay d’Orsay ha inoltrato una protesta formale al dipartimento di Stato americano per la gestione dell’aeroporto della capitale haitiana. L’ambasciatore francese ad Haiti ha detto che lo scalo è diventato una “appendice di Washington” e non è più “a disposizione della comunità internazionale”. Imbaldanzito dalla polemica, il venezuelano Chavez ha concluso la sua puntata del programma televisivo Alò Presidente spiegando che “Gli Stati Uniti stanno approfittando del terremoto di Haiti per occupare militarmente il Paese”.
Ragioniamo un attimo su queste critiche, considerando che il terremoto che si è accanito sull’isola, con decine di scosse di assestamento, ha colpito un Paese geologicamente pericoloso, poverissimo, che ha una lunga storia di terremoti alle spalle e decenni di totale incuria verso le politiche antisismiche. Questo è un elemento che conta quando si parla di soccorsi. Quando il 12 gennaio scorso la terra ha tremato ad Haiti sono venuti giù i palazzi del potere, e nei quattro giorni successivi il presidente e i suoi ministri (quelli sopravvissuti) sono rimasti praticamente inerti di fronte all’accaduto, non per menefreghismo ma non avendo alcuna risorsa disponibile per reagire adeguatamente alla situazione. Ancora ieri, il governo dell’isola non ha potuto fare altro che sedersi su sedie di plastica davanti alle macerie del palazzo presidenziale, in una scena di apocalittica desolazione.
Non sono stati gli americani a prendersi l’aeroporto di Port Au Prince, è stato il governo haitiano a chiedergli di farlo, e gestire la macchina degli aiuti è una questione complessa che può comportare errori e ritardi, a patto che si tratti di casi isolati e non di un fallimento logistico su vasta scala. Non si tratta solo di far arrivare quanti più aiuti possibile e il personale medico e qualificato. Da questo punto di vista la comunità internazionale sta facendo tutti gli sforzi possibili. Il problema vero è portare a destinazione quelle montagne di viveri, cibo acqua vestiti tende per i campi profughi, là dove ce n’è bisogno; un obiettivo che deve essere raggiunto subito e con il massimo coordinamento. Ecco perché prima di far arrivare i medici, i tecnici e gli specialisti, occorre mettere in sicurezza la zona di crisi. I militari americani hanno preso il controllo degli aeroporti e delle vie di collegamento cercando di evitare, insieme al personale dell’Onu, gli episodi di sciacallaggio, le violenze e le ruberie (le carceri sono crollate, migliaia di prigionieri sono evasi) che abbiamo visto in televisione e su Internet. Ci sono già migliaia di uomini schierati sul territorio e altre migliaia ne stanno arrivando.
Gli errori commessi dagli Usa all’aeroporto di Port Au Prince sono ricompensati dallo sforzo fatto al largo delle coste dell’isola, dove si sta riunendo una flotta di portaerei e navi-ospedale che ha dato vita a una cittadella umanitaria in grado di gestire le confuse fasi del piano umanitario. Tutto questo avviene insieme al personale della missione Onu, alle preziose truppe brasiliane delle Nazioni Unite, all’aiuto che fa ben sperare della confinante Repubblica Dominicana, alle Ong e al network degli aiuti umanitari (MSF è riuscita a compiere fino a cinquecento operazioni al giorno). Diciamo solo che sarebbe opportuno aspettare ancora un altro po’ di tempo per giudicare la gestione obamiana della crisi umanitaria di Haiti, e non, come fa Cockburn, prendere la palla al balzo per trasformare il suo articolo in un violento attacco a Bush e al partito repubblicano.