I Sauditi potrebbero pagare cara in Pakistan la loro lotta contro al Qaeda
16 Marzo 2009
Ai tempi del grande entusiasmo neocon, quando analisti come David Frum scrivevano che bisognava spaccare in due l’Arabia Saudita (tenendosi i pozzi petroliferi e abbandonando la monarchia regnante al suo destino), i Saud erano come fumo negli occhi a Washington. Secondo la teoria dell’“effetto domino”, gli Usa avrebbero dovuto “liberare”, uno alla volta, l’Iraq, l’Iran e alla fine affrontare il vero male che era concentrato in Arabia Saudita. E c’è stato un momento in cui davvero principi e sovrani arabi devono aver pensato che la sacra alleanza con gli Usa era finita.
Ma Bush fu molto chiaro: se combatterete seriamente Al Qaeda invece di favorirla come avete fatto fino all’11 Settembre, gli Stati Uniti saranno a fianco dei governi arabi e musulmani nella guerra mondiale contro il terrorismo jihadista. Il presidente americano cercava quindi di riprendere il controllo di una situazione – quel grumo di interessi che unisce storicamente Washington ai sauditi – che sembrava essergli sfuggita di mano.
Ebbene, bisogna ammettere che Ryad ha cercato di riaccreditarsi agli occhi degli americani. Negli ultimi 8 anni il governo saudita ha colpito gli interessi economici e strategici di Bin Laden, dopo aver preso coscienza che ne andava della sua stessa sopravvivenza. Non si spiegherebbero altrimenti le recenti minacce di Al Qaeda contro l’ambasciata saudita in Pakistan. Ne ha parlato il giornale pakistano The Nation, avvisando che gli attacchi potrebbero coinvolgere anche le aviolinee saudite.
Perché proprio il Pakistan? Perché le zone di confine tra Pakistan e Afghanistan, e l’alleanza con i Talebani, è quello che resta al network quaedista dopo le batoste accumulate negli ultimi anni. E Bin Laden sa che deve temere i Saud: ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, furono loro a sponsorizzare la logistica e l’addestramento in Pakistan dei mujaheddin armati dagli Usa. C’è quindi una solida e antica alleanza tra Ryad e Islamabad, e non a caso questi due Paesi furono tra i pochissimi a riconoscere lo stato Talebano.
Oggi, in un momento in cui l’amministrazione Obama si dice pronta a dialogare con le forze talebane ‘moderate’, sul modello del “Risveglio iracheno”, i sauditi possono fare miracoli per prosciugare la pozza terrorista tra Pakistan e Afghanistan. Circa un centinaio di jihadisti ricercati dalle autorità saudite si nasconde in Pakistan. Dividere i Talebani sarebbe un colpo mortale inflitto alla dirigenza di Al Qaeda, anche se non quello definitivo.
Ma quella che si combatte nel mondo arabo e musulmano non è solo una lotta armata è anche una guerra ideologica. Bin Laden definisce i Saud dei corrotti e corruttori che, con la complicità del piccolo e del grande satana, cioè di Israele e degli Usa, impediscono l’affermazione della "Umma". Solo l’anno scorso ci sono stati almeno un paio di video-messaggi qaedisti che invitavano ad assassinare il Re saudita Abdullah, “il tiranno”, “l’imam a capo dell’ateismo”, “l’apostata capriccioso”, con attacchi simili a quello conto la Moschea Rossa di Islamabad nel 2007.
Il Gran Muftì Sheikh Abdul-Azin bin Abdullah al-Sheik, una delle autorità religiose al top del clericato saudita, ha messo in guardia il suo popolo dal finanziare quelle attività caritatevoli e filantropiche che poi finiscono nelle tasche di Al Qaeda per alimentare la violenza in altri paesi islamici. Molti altri imam hanno definito il terrore jihadista una forma di “devianza” dai principi dell’Islam.
La colpa del sovrano saudita – agli occhi dei suoi nemici islamisti – è di aver favorito il dialogo tra fedi diverse, l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo. Per questo, lo scorso gennaio, un altro video jihadista di produzione yemenita annunciava la formazione del gruppo “Al Qaeda nella penisola arabica” per liberare le terre sacre al Profeta dai Crociati e dai loro agenti traditori. Ed ecco perché l’intelligence di Ryad negli ultimi tempi è in fibrillazione. Le minacce di attacchi contro interessi sauditi in Pakistan vanno prese seriamente.
Non possiamo dimenticare che la monarchia Saud è un regno medievale, fatto di padroni miliardari e schiavi provenienti da tutto il mondo arabo – un pianeta che vive sospeso tra grattacieli e champagne, in cui alle donne è negato di avere la patente e ai cattolici vietato andare in chiesa. La monarchia Saud si regge sul patto stretto con i religiosi wahhabiti, che seguono un’interpretazione rigorista del Corano di cui si nutre ancor oggi l’ultrafondamentalismo islamico.
Fino adesso il patto tra Usa e Arabia Saudita si è basato su una serie di interessi tattico-operativi convergenti che possono essere sinteticamente riassunti nella formula “petrolio in cambio di sicurezza”. Ma a tutto questo non è seguito una vera democratizzazione dell’Arabia Saudita, che continua ad essere una società irriformabile. Ma se i principi di Ryad da qualche anno stanno davvero combattendo contro il fronte jihadista conviene appoggiarli? Dobbiamo rallegrarci o no se gli agenti segreti sauditi si aggirano tra le montagne pachistane pagandosi la fedeltà di qualche banda armata talebana? Meglio un governo accentratore e corrotto che dice di esserti amico o l’anarchia e il caos terrorista scatenato dei tuoi nemici dichiarati?