I sindacati difendono l’art. 18 perché senza non avrebbero ragione di esistere

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I sindacati difendono l’art. 18 perché senza non avrebbero ragione di esistere

28 Ottobre 2011

A che cosa serve il diritto del lavoro, a creare occupazione o a proteggere i posti di lavoro? A chi serve il diritto del lavoro, ai disoccupati o agli occupati? Sono domande che mi piacerebbe fare ai leader dei Sindacati che ieri, al solo annuncio di una riforma che potrebbe toccare l’articolo 18, ne hanno dette di cotte e di crude. Facendo, però, un po’ la magra figura di ipocriti perbenisti. Perché con la lotta non difendono i loro rappresentati (i lavoratori occupati e/o disoccupati), ma proteggono il loro fortino esistenziale fondato sulla rocca del diverbio, dello scontro e del conflitto sociale.

L’occasione dunque è stata la Lettera di intenti che il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha consegnato a Bruxelles. Ai Sindacati, più di tutto, sembra non siano andate giù le misure su lavoro e pensioni; mi soffermo sulle prime e di queste su quelle relative ai licenziamenti. Già ieri, navigando su internet, si potevano scorgere titoloni pavoneggianti ad un futuro fatto di “licenziamenti più facili per tutti”. Ma sarà davvero così? No. Leggendo il testo della Lettera, infatti, si percepisce una situazione diversa: la riforma non dovrebbe toccare i lavoratori già in forza, ma quelli coinvolti in (eventuali) nuove iniziative produttive; iniziative a cui la disapplicazione dell’articolo 18 (la “stabilità”) fa da stimolo e incentivo. La novità si legge al punto “b” della Lettera dove si parla di “efficientamento del mercato del lavoro”. E’ scritto: la riforma sarà “funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa, anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato”. Chiara è la finalità dell’allentamento dell’articolo 18. Fa parte, cioè, di un piano di riforma “funzionale” a: 1) maggior propensione ad assumere; 2) esigenze di efficienza dell’impresa.

Ma proprio perché funzionale “alla maggiore propensione ad assumere”, la misura non potrà che guardare al futuro, non al passato. Non potrà, cioè, che interessare le nuove assunzioni e non anche i lavoratori già in forza. Mettiamo, per esempio, che un’impresa decida di aprirsi a nuovi mercati, di provare la produzione con nuove tecnologie e via dicendo. In questi casi, la riforma incentiverà l’impresa consentendo, sulle nuove assunzioni, di disapplicare l’articolo 18. Cosicché, laddove la nuova iniziativa dovesse risultare non sostenibile, l’azienda potrebbe far marcia indietro, dismettere i nuovi impianti e i nuovi reparti e, con essi, evidentemente, anche il nuovo personale nel frattempo impiegato, ma salvando la realtà produttiva preesistente (e con essa anche i vecchi posti di lavoro). Insomma l’incentivo potrebbe spronare le piccole imprese a provare a crescere, a tentare di superare il complesso del “nanismo” imprenditoriale che caratterizza l’economia italiana: non dovendo necessariamente ingabbiarsi in assunzioni definitive (vada come vada la nuova iniziativa), è più probabile che l’impresa si convinca a rischiare.

Non è questa, evidentemente, la lettura che hanno dato i Sindacati alla nuova misura. La Cgil ha parlato addirittura di “istigazione a delinquere” asserendo che laddove la Lettera parla di “efficienza dell’impresa” lo fa nel significato di “libertà di licenziare per ogni evenienza”. La Cisl, la Uil e la Ugl si sono affidate ad un unico comunicato congiunto per parlare di “grave errore e inaccettabile provocazione”, per di più “ingiustificata perché non richiesta o concordata con le associazioni imprenditoriali” concludendo che “se tale provvedimento sui licenziamenti fosse davvero presentato dal Governo si romperebbe la coesione sociale nel nostro paese”. Qui viene spontaneo porsi una domanda: ma a quale coesione sociale si riferiscono? A quella dei tanti giovani disoccupati che oggi stentano a trovare uno straccio di occupazione? O a quella delle migliaia di aziende che stentano a riprendersi da una crisi che sta durando più del dovuto?

La realtà è che questa misura mina fortemente le fondamenta del Sindacato.

L’articolo 8 della manovra di fine estate aveva consegnato ai Sindacati una grande responsabilità: guidare aziende e lavoratori verso nuove forme di cogestione aziendale mediante la sperimentazione di forme di allentamento dell’articolo 18 (le famose intese in deroga). Il tutto per spronare la ripresa economica e una maggiore produttività aziendale. La risposta delle Parti sociali, complice la Confindustria (che sta pagando a caro prezzo quello scellerato patto), è stata un no a prescindere; l’ultimo episodio si è registrato con l’accordo nel settore bancario, dove è arrivato un nuovo patto di rinuncia al potere derogatorio per quanto riguarda l’articolo 18.

La decisione dei Sindacati (e di Confindustria) – imposta dalla sola Cgil ma accettata supinamente da tutti gli altri Sindacati e da Confindustria in nome della medesima “coesione sociale” – ha però spiazzato oltre 100 mila aziende, tutte pmi, e che costituiscono il 90% del tessuto aziendale. Sono aziende invece – sono tante – che si dichiarano fortemente attratte dalla possibilità di evitare, anche sperimentalmente, la gabbia della soglia dei 15 dipendenti e che vedono l’allentamento dell’articolo 18 una possibilità, e non un freno, alla crescita dell’occupazione. Ma loro hanno molto meno voce nel salotto decisionale della “coesione sociale” dei poteri forti.

Adesso c’è da passare dalle parole ai fatti. Ci vuole coraggio: entro 8 mesi la misura deve diventare legge. Davvero una brutta grana per i sindacalisti di professione (e non per missione). Perché se dovesse funzionare verrebbe seriamente compromessa non solo la credibilità del Sindacato (e di Confindustria), ma la loro stessa ragione esistenziale.