I talebani rivogliono Kandahar (ma non l’avranno)
26 Giugno 2008
La notte del 14 giugno nei dintorni di Kandahar. Un kamikaze carico di esplosivo si immola contro il portone del carcere di Sarposa, aprendo un varco. I miliziani lanciano una gragnola di missili sventrando il primo piano dell’edificio. Dozzine di Taliban armati di mitra e granate penetrano nella prigione liberando i detenuti. Da Sarposa sono evasi mille prigionieri, la maggioranza criminali comuni. 400 talebani, comandanti e graduati vogliosi di sacrificio e ben disposti a organizzare attentati. Non è chiaro se i miliziani abbiano ricevuto aiuto dall’interno del carcere ma il capo della polizia penitenziaria di Sarposa è finito sotto inchiesta. 15 poliziotti afgani sono morti durante l’attacco, pagando con la vita uno stipendio da fame, ed è giusto ricordarlo.
È stato davvero un bel colpo mediatico per i Taliban. Scendono dalle montagne per dar vita a una guerriglia fatta di imboscate, attentati suicidi, bombe nascoste sulle strade, rapidi disimpegni a bordo degli onnipotenti pick-up. Carlos Branco, generale di brigata della Nato, ha ammesso che “l’attacco è stato un successo anche se non avrà un impatto strategico. È inutile arrivare a conclusioni affrettate sulla forza dei Taliban o sul deteriorarsi della missione nell’area”. Secondo il Generale Rick Hillier, comandante delle truppe canadesi nella provincia di Kandahar, “l’attacco non influenzerà la nostra presenza in Afghanistan”. 2.500 uomini che dal 2006 sorvegliano la zona più pericolosa del Paese per conto dell’ISAF.
Dopo l’evasione i miliziani si sono dispersi nella valle dell’Arghandab dove è più facile nascondersi agli occhi dei Predator. Si dividono per ricompattarsi e sferrare un altro colpo. Minacciano Kandahar, la seconda città afgana, che considerano la loro capitale spirituale. Durante la fuga hanno fatto terra bruciata, lasciandosi dietro ponti distrutti e strade riempite di trappole esplosive. Sapevano che la controffensiva della Nato sarebbe stata implacabile: negli ultimi giorni 56 miliziani sono rimasti a terra insieme a due soldati afgani.
La popolazione, intimidita e stanca della guerra, è terrorizzata da un eventuale ritorno dei Taliban. Anche per questo l’evasione da Sarposa ha assunto quei toni epici buoni a contrabbandare il mito dell’invincibile armata afgana. L’astuto capo tribale che – da Kipling al giornalismo contemporaneo – costituisce l’immagine dell’afgano combattente nato. Viene da chiedersi quanto ci sia di reale e quanto di immaginario nella “pericolosa offensiva estiva talebana” che ogni anno, puntuale come un cambio di stagione, torna a infiammare le prime pagine dei giornali occidentali. Ogni volta sembra di essere davanti al Tet ma in otto anni i miliziani non hanno mai sfondato le linee della Coalizione.
Intanto le perdite militari dei Paesi impegnati in prima linea in Afghanistan aumentano. Il 19 giugno è toccato al caporale inglese Sarah Bryant, uccisa da una mina insieme ad altri 3 compagni. Solo quest’anno gli Usa hanno perso più di quaranta militari, circa un centinaio le perdite complessive della Nato, oltre quattrocento quelle dell’esercito afgano (l’ultima è un’altra donna, l’ufficiale di polizia Bibi Hoor, 26 anni), più di cinquecento vittime civili e quasi duemila morti tra i miliziani.
Il presidente Karzai promette di snidare le bande che infestano il Waziristan, la regione pakistana al confine con l’Afghanistan dove i Taliban svernano prima di tornare all’attacco. I lanci di missili dal Pakistan sui villaggi afgani continuano a mietere vittime tra i civili. Karzai vuole la testa di Baitullah Mehsud, luogotenente del Mullah Omar e sospettato numero uno dell’assassinio di Benazir Bhutto. Sono gli stessi che hanno cercato di fargli la pelle il 28 ottobre scorso.
“Vogliamo un Afganistan stabile – ha ribattuto il primo ministro pakistano Gilani – è nel nostro interesse. Perché dovremmo destabilizzare un paese fratello”? Già, perché?
Nel saggio “Descent into Chaos: The United States and the Failure of Nation Building in Pakistan, Afghanistan and Central Asia”, il giornalista pakistano Ahmed Rashid ha raccontato agli americani quanto era barbaro il regno talebano, giustificando la guerra del 2001. Il nation-building si è però rivelato una “opportunità perduta”, sostiene Rashid: la “dittatura” nucleare pakistana è sempre più collusa con i Talebani, l’Afghanistan è governato dai Signori della Guerra, gli incassi del narcotraffico sono esplosi rivitalizzando il terrorismo e il fondamentalismo religioso.
Cosa accadrà dopo le elezioni Usa di novembre? Barack Obama ha fatto dell’Afghanistan il fronte decisivo della sua campagna elettorale. L’unico della guerra al terrorismo. Afghanistan sì, Iraq no, perché rovesciare Saddam avrebbe impedito agli Usa di sconfiggere una volta per tutte i Talebani e Bin Laden. Una tesi cara alla sinistra interventista, quella che ha sempre chiesto operazioni chirurgiche per decapitare Al Qaeda, ma sono anni che i reparti speciali inglesi e americani colpiscono i pezzi da novanta della guerriglia. Uccidere o imprigionare i leader ha un effetto debilitante sul morale dei talebani, in un mondo dove il valore dei capi militari ha un significato strettamente politico. Queste vittorie tattiche non bastano a sconfiggere i protettori di Bin Laden.
Combattere il terrorismo non è solo una “questione di difesa”, come ha spiegato l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani. I repubblicani sono convinti che negli anni Novanta
“In Afghanistan si possono vincere delle battaglie ma non la guerra” è il ritornello che va di moda tra Londra e gli ambienti democratici di Washington. La sinistra occidentale ritiene che in Afghanistan si combatta il terrorismo. Ma i “terroristi” nella Storia hanno sempre avuto un nome e cognome. Attualmente si chiamano “islamisti” perché insieme ai fucili hanno imbracciato una visione degenerata, aggressiva e nichilista dell’Islam. Catturare Bin Laden non basterà a sconfiggere questa ideologia che minaccia l’ordine internazionale, com’è accaduto tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta con il nazifascismo e il comunismo. L’affermazione di un Islam moderno, democratico, che rispetti i diritti umani, potrebbe essere un’alternativa alla guerra mondiale islamica.
Il segretario di stato americano Rice ha pubblicato un saggio su Foreign Affairs intitolato “Rethinking the National Interest: American Realism for a New World”. “Dopo l’11 Settembre – scrive
Nel 2006
Bisogna prendere l’iniziativa ma non tutti sono disposti a farlo. Ancora oggi gli Usa devono impegnare circa 13.000 uomini di Enduring Freedom, oltre ai 7.000 della missione Nato, per dare la caccia ai Taliban al confine con il Pakistan. Il segretario Gates ha parlato di una alleanza a due velocità in cui ci sono un gruppo di Paesi (
L’Italia ha garantito alla Nato più “flessibilità” e una riduzione nei tempi di reazione delle nostre truppe (da