I valori dell’Occidente non possono essere negoziati. Valgono più dell’oro

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I valori dell’Occidente non possono essere negoziati. Valgono più dell’oro

11 Agosto 2008

Due parole sono sufficienti a gettare ombra sulla cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Pechino, e possibilmente sulle olimpiadi di questo 2008 nella loro interezza: diritti umani. In questi giorni, il monito ufficiale del governo di Hu Jintao ai paesi partecipanti è stato di “non interferire” negli affari interni del paese: ma ciò che Jintao non comprende è l’impossibilità di ridurre le consapevolezze che l’Occidente ha maturato in oltre un secolo di storia a mere intimazioni di rispetto per  l’autorità nazionale.

Un paese che vuole ospitare le olimpiadi decide automaticamente di uscire dal muro di autoreferenzialità che lo scherma dal resto del mondo: è un paese che, anche se solo per considerazioni di interesse, alla ricerca di legittimazione politica o di vantaggi economici, pur sempre sceglie di confrontarsi con altre realtà nei termini del dialogo, dello scambio di esperienze e della reciproca tolleranza. Non è forse questo il significato profondo delle discipline sportive? Mettersi in discussione con le proprie conoscenze e capacità personali, relazionandosi a chi è migliore, per imparare e crescere a propria volta? Dimostrando che il rispetto è qualcosa che si deve a tutti i partecipanti al gioco, solo in virtù del fatto di farne parte?

Basterebbero -o meglio sarebbero dovute bastare- queste considerazioni a far dubitare dell’appropriatezza di tenere i giochi olimpici 2008 a Pechino, legittimando il regime di Jintao ed ospitando un evento di portata internazionale in una nazione dove si applica ancora la pena capitale, si censura l’opinione pubblica, il pluralismo viene sistematicamente soppresso e i dissidenti politici incarcerati o uccisi. Ma l’eterno wishful thinking di molti occidentali, che si ostinano a credere che basti l’esempio a riportare sulla retta via il figliolo scapestrato, anche questa volta ha avuto la meglio: d’altronde, non si potevano certo gettare al vento i soldi dell’Occidente organizzando i giochi olimpici nell’inospitale e molto poco glamour Darfur. Secondo gli ottimisti, la Cina avrebbe potuto essere cambiata dall’interno, quasi per osmosi: a contatto con i nostri modi manifestamente più buoni, persino gli spilloni nei colletti delle camicie degli agenti alla sicurezza cinesi (per mantenere la postura, ci è stato spiegato) avrebbero perso un po’ della loro pungente affilatezza.

Il nostro ministro degli esteri, Franco Frattini -in totale incoerenza con quanto affermato nel periodo di preparazione alle olimpiadi, dove sembrava indiscutibile l’idea che la politica potesse promuovere l’integrazione e la fratellanza tra i popoli- ha ribadito: ora niente più politica, via libera allo sport ed alla sana competizione. E dunque, se l’importante è vincere e non partecipare, un luogo vale l’altro per ospitare questo evento così importante che sin dai tempi di Atene non era mai stato così palesemente disvestito dalle proprie valenze morali (con ovvia eccezione per le olimpiadi di Hitler del 1936). Forse Frattini in realtà voleva soltanto dire che a questo punto siamo arrivati troppo avanti per farne una questione di principio. Ora dobbiamo pensare solo a competere e a vincere (incidentalmente, lo stesso principio che Jintao sta applicando alla lettera in Tibet).

Per fortuna che l’America, il gigante con la coscienza -come lo definì un tempo Robert Kagan- ha ripreso ad alzare la voce. Prima con le prese di posizione del suo Presidente, che ancora una volta ha pubblicamente ribadito l’importanza universale della libertà e dei diritti umani (forse un’affermazione scontata, quella di George W. Bush, ma sorprendentemente efficace, vista la reazione stizzita del premier Jintao a quella che è stata definita un’“interferenza” negli affari interni cinesi); poi attraverso la visita della first lady Laura Bush e della figlia Barbara al campo profughi di Mae La, al confine nordoccidentale con la Birmania, durante la quale la moglie del Presidente americano ha ricordato alla Cina l’importanza di sottoscrivere le sanzioni internazionali che mirano a piegare il regime di Rangoon.

In Europa, solo la Francia ha ribadito indefessamente la posta in gioco di queste olimpiadi: il Presidente Sarkozy ha fatto pubblicare un elenco dei dissidenti politici imprigionati dal governo cinese, chiedendone implicitamente la liberazione; e seppur concordando con il Dalai Lama sull’opportunità di rimandare il loro incontro, la sua consorte Carla Bruni non mancherà di presenziare insieme al grande leader spirituale all’inaugurazione di un tempio buddista a Roqueredonde, nell’Herault, il prossimo 22 agosto.

Bush e Sarkozy non hanno semplicemente cavalcato un’utile onda mediatica per ricavarne successo personale. Hanno riportato Birmania e Tibet al centro della scena mondiale, in un momento politico delicatissimo nel quale i fuochi d’artificio magnificamente orchestrati dalla potenza cinese durante la cerimonia d’apertura correvano il rischio di farci dimenticare molto di quello in cui noi occidentali proclamiamo enfaticamente di credere.

Quella nozione di “libertà” a cui l’Occidente dichiara di ispirarsi, e sull’impronta della quale ha modellato nei secoli le proprie istituzioni, deve essere ribadita indefessamente anche in occasione dei giochi olimpici di Pechino: dagli atleti, dai politici, da ognuno dei presenti che crede che questo evento sportivo rappresenti una tra le occasioni più efficaci per il dialogo tra i popoli. Altrimenti, gli ideali in cui crediamo verranno irrimediabilmente corrotti.