I veri “bamboccioni” sono i professori universitari che non vanno in pensione

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I veri “bamboccioni” sono i professori universitari che non vanno in pensione

21 Gennaio 2010

Il bamboccione è un under 25 che vive a casa dei genitori e studia svogliatamente prolungando il più possibile lo stallo universitario, nel timore del precariato che lo aspetta al varco. Sull’Occidentale abbiamo iniziato una discussione su questi “giovani d’oggi”, dicendo che proprio la precarietà, con i suoi chiari di luna, potrebbe rivelarsi l’unica arma in mano alle nuove generazioni per dimostrare quanto valgono e se hanno voglia di trovare il posto che gli spetta nella società. Ma gli under 25 rischiano di perdere ogni speranza davanti a storie come quella che stiamo per raccontare. Dimostreremo che in Italia quella del “bamboccione” non è semplicemente una questione generazionale bensì una vera e propria categoria dello spirito.

L’altro ieri, il Tar del Lazio ha dato ragione a un gruppo di anziani professori universitari della Sapienza – per adesso 5, potrebbero diventare una quarantina – che si rifiutano di andare in pensione pur dovendo. Nel marzo del 2009, il Cda dell’Ateneo aveva votato una delibera per impedire ai docenti in età pensionabile di restare in cattedra altri 2 anni dopo la fine naturale del loro mandato; un tentativo caduto nel vuoto. Gli ordinari ultrasettantenni, infatti, si sono ribellati impugnando la delibera e vincendo la causa in tribunale. Resteranno al loro posto perché “Mandare obbligatoriamente in pensione dei professori, a prescindere dai loro meriti scientifici, e soltanto perché l’università ha problemi finanziari, non mi è mai sembrata una posizione condivisibile e giuridicamente corretta”, si è difeso Luigi Frati, il rettore della Sapienza.

Neanche noi vogliamo fare del giovanilismo o rinnegare l’esperienza dei “maestri” – abbiamo studiato sui loro libri e li abbiamo anche comprati prima di sostenere un esame, quindi nutriamo solo stima e rispetto per i loro insegnamenti. Però c’è modo e modo: i professori in servizio costano più di quelli pagati dall’INPS (un ordinario con il massimo di anzianità prende sui 7.000 euro al mese) e visto che la Sapienza è in regime di amministrazione controllata ci si aspetterebbe una gestione più oculata della spesa relativa al corpo docente. Tanto più che i concorsi a tempo indeterminato per i nuovi ricercatori sono bloccati e le amministrazioni minacciano di licenziare i ricercatori anziani (gli insider la chiamano "rottamazione" e colpirebbe anche personale didattico con anni e anni di attività contributiva). I decani, invece, non solo resteranno al loro posto, ma il rettore Frati propone di versargli un incentivo: “In linea di massima darei ad ogni docente che sceglie di ritirarsi un bonus di circa 6/12mila euro annuali, e in cambio il professore rimarrà all’università per tenere qualche corso”.

Chiediamoci perché un ultrasettantenne sente questo irrefrenabile bisogno di restare al timone del suo dipartimento. In certi casi prevale l’istinto di piazzare i suoi protégé nella complicata sciarada della cooptazione, ma non è solo questo. “Molti decani temono di entrare in depressione una volta pensionati”, dice Anna, 40 anni, che una brutta mattina ha scoperto di essere stata tagliata fuori dal gioco, “hanno trascorso una vita intera dietro la cattedra e adesso non sopportano il pensiero di restare a casa senza far niente”. Quest’immagine del professore ormai in avanti con gli anni che non vuole andarsene dall’università, perché si sente un "supergiovane", si rispecchia in quella dei trentenni abbarbicati alla loro stanzetta di adolescenti che non vogliono crescere. Con una differenza: mentre ai pensionandi è stata promessa una ricca buonuscita, agli studenti “non è escluso che si aumentino le tasse universitarie, per esempio a chi viene da famiglie che superano i 60.000 euro all’anno”, annuncia il cda della Sapienza.