I videogames potranno mai entrare nell’Olimpo delle forme d’arte?
27 Giugno 2010
Sono una perdita di tempo, istigano alla violenza, isolano i ragazzi, uccidono i libri e rovinano la vista. Parliamo, ovviamente, dei videogiochi, incubo di ogni genitore che si rispetti. Da PacMan alla Playstation 3, nel sentire comune poco è cambiato: i videogiochi restano la forma d’intrattenimento più discussa della contemporaneità, capace di mettere i figli contro le madri, gli amanti del computer contro i fan della console. Con buona pace dell’industria videoludica, che registra puntualmente fatturati da capogiro grazie all’aumento dell’età media dei consumatori (30 anni, per il 60% uomini). Negli ultimi anni, diversi studiosi hanno approfondito il fenomeno, e il dibattito sui videogiochi si è alzato di livello: e se fossimo al cospetto di una nuova forma d’arte, o addirittura dell’arte più rappresentativa del XXI secolo? Quella che può sembrare una provocazione, è in realtà una questione molto seria.
Dai tempi di “PacMan” i videogiochi hanno fatto passi da gigante, migliorando grafica, giocabilità e coinvolgimento. Non dimentichiamo, inoltre, che nel corso dell’Ottocento anche i romanzi sono stati bistrattati dalla “cultura alta”, più di quanto lo siano oggi “Tomb Raider” e compagnia, e la stessa sorte è toccata al cinema, considerato inizialmente un volgare surrogato del teatro. La storia, poi, ha dato ragione a romanzieri e cineasti. A rilanciare la questione (non nuova) del rapporto tra videogiochi e arte è oggi il giornalista americano Tom Bissell, autore di “Extra Lives: Why Video Games Matter” (Pantheon, $ 22.95), che ha avuto il merito di guardare a titoli di grande successo – come il violentissimo “Grand Theft Auto IV” – con l’occhio del critico letterario, giungendo alla conclusione che anche i videogiochi (al pari della letteratura, del teatro e del cinema) meritano ormai un’attenta analisi formale.
Intervistato da “Salon”, Bissell pone uno spartiacque tra il 2006 e il 2007: in questi anni, alcune case di produzione hanno iniziato a dare sempre più importanza alla narrazione, e molte altre stanno imparando la lezione. All’origine di questo processo, però, fondamentale è stato “Resident Evil” (Capcom, 1996), “il primo videogame ad essere più una storia che un gioco”: tutto era fatto molto bene, spiega Bissell, “l’atmosfera, la sensazione di essere parte di un mondo fittizio, la tensione”. Perché un prodotto abbia successo, teorizza il critico, è necessario “far sentire i giocatori molto liberi, ma allo stesso tempo fare in modo che questa libertà sia imbrigliata dal senso della narrazione”. E proprio le storie dietro ai giochi ci portano all’annosa questione della violenza. Secondo Bissell, ogni gioco è costruito per un target diverso: “Lazlow Jones, un produttore di ‘Grand Theft Auto’, ha detto che i genitori che comprano un titolo della loro serie per i bambini sono semplicemente degli idioti. Ho molto apprezzato la schiettezza”.
“Extra Lives: Why Video Games Matter” riconosce ai videogiochi una valenza artistica, e lega questa potenzialità alla centralità della narrazione nell’impianto del prodotto. Bissell, comunque, non è il primo ad interrogarsi sul rapporto tra videogiochi e arte: nel 2005, Aaron Smuts – docente di filosofia al Rhode Island College – si è posto le stesse domande, in un saggio pubblicato sulla rivista on-line “Contemporary Aesthetics”. Lo sguardo di Smuts è più filosofico e sociologico: i videogames, spiega il professore, possono essere considerati una forma d’arte secondo diverse teorie estetiche, storiche ed espressive, e lo testimonia il fatto che grandi istituzioni come musei e università “hanno istituito programmi sull’intrattenimento tecnologico”. Un filo tematico, inoltre, lega i videogiochi “alla storia della letteratura occidentale”, e questi prodotti “condividono fini espressivi con altre forme d’arte riconosciute come tali”: alla pari degli scrittori, conclude Smuts, “ci sono game designer che hanno raggiunto lo status di autori”.
Mentre le grandi case – Sony, Nintendo e Microsoft – si sfidano a colpi d’innovazione, anche in Italia abbiamo recentemente assistito a un dibattito sul rapporto tra videogiochi e altre forme artistiche. Il mese scorso, infatti, l’intrattenimento elettronico è sbarcato al Salone Internazionale del Libro di Torino, tempio della letteratura, per una tavola rotonda dedicata alla reciproca influenza tra libri e videogiochi. A Torino era presente anche la casa editrice Multiplayer.it, che – insieme a saggi e guide – ha in catalogo molti romanzi, ideale completamento di alcuni dei videogames più importanti, dall’immortale “Doom” a “Metro 2033”, da “Bioshock” – il gioco preferito di Tom Bissell – a “Dragon Age”. Questi libri, si legge sul sito di Multiplayer.it, sono “una sorta di prosecuzione dell’esperienza videoludica e cinematografica”, con l’aggiunta di “elementi e approfondimenti che completano il videogioco o il film a cui sono riferiti”. Un modo, insomma, per rompere le barriere tra le principali forme d’intrattenimento contemporanee.
Ma se lo scambio tra videogames e libri è un fenomeno abbastanza recente, gli scambi – più o meno proficui – tra i prodotti elettronici e la settima arte sono ormai all’ordine del giorno. Nella maggior parte dei casi, è l’industria videoludica a portare i film sul computer: da “Harry Potter” ad “Alien v/s Predator”, passando per “Il Padrino”, non c’è grande successo cinematografico che non sia stato trasformato in videogame. Non mancano però i casi inversi, in cui è un videogioco a dare origine a grandi produzioni hollywoodiane: il caso più celebre è senza dubbio quello di “Tomb Raider”, portato sul grande schermo con Angelina Jolie nei panni della bella Lara Croft, ma non si dimentichino “Final Fantasy”, realizzato interamente a computer, o “Resident Evil”, diretto nel 2002 da Paul W. S. Anderson. Al di là dei dibattiti, un fatto è certo: la rincorsa dei videogiochi all’Olimpo dell’arte passa prima di tutto dallo scambio con letteratura e cinema.