I vili intellettuali nella Biennale del dissenso

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I vili intellettuali nella Biennale del dissenso

I vili intellettuali nella Biennale del dissenso

1977, Carlo Ripa di Meana, in qualità di presidente della Biennale di
Venezia, decide di dedicare la mostra di quell’anno al tema del
«dissenso» nei paesi dell’Est. Per lui la situazione nel Pci è «matura»
e, anzi, l’iniziativa può essere una grande occasione unitaria «utile
al rafforzamento e alla qualificazione della sinistra». Ma con un
braccio di ferro politico e diplomatico e attraverso ogni forma di
pressione e di ricatto nei confronti del governo di Roma, Mosca fa di
tutto per bloccare l’iniziativa. Nonostante ciò la Biennale del
dissenso viene organizzata. Ad uscire sconfitti dallo scontro
moltissimi nomi della cultura italiana di quegli anni. La Biennale del dissenso è diventato un libro scritto dallo stesso Ripa di Meana e da Gabriella Mecucci (Liberal edizioni). Ne pubblichiamo un capitolo che racconta della viltà di molti intellettuali protagonisti di quell’evento.

Se il comportamento del Pci è sofferto, e alla fine
negativo, quello di molti intellettuali comunisti e di tanti «compagni di
strada» è peggiore: in alcuni momenti si caratterizza per piaggeria e viltà,
anche se non mancano comportamenti coraggiosi o semplicemente dignitosi.

Come già ricordato, aveva da poco fatto irruzione sulla
scena l’arroganza sovietica, con la prima iniziativa dell’ambasciatore Nikita
Rijov, che Mosca trova subito il primo alleato nel quotidiano Paese Sera, dove
il critico Nello Ponente chiede di non finanziare la Biennale. È la prima delle
tante uscite di esponenti della cultura italiana. Scendono in campo da subito
anche Antonello Trombadori e Renato Guttuso. Ma ciò che più sorprende è il
fatto che allo schieramento contro la manifestazione veneziana partecipi con
entusiasmo anche un non iscritto al Pci come il sindaco di Roma Giulio Carlo
Argan. Uno storico dell’arte tra i più originali, un intellettuale che dovrebbe
non essere organico, bolla la Biennale con una frase irridente: «Si tratta di
uno zelo da crocerossine».

Dopo Argan, per rimanere nel mondo dell’arte, tocca a
Giacomo Manzù e a Maurizio Calvesi. Quest’ultimo sulle colonne del Corriere
della Sera difende l’autonomia della cultura e se la prende con il Psi, reo di
fare «il gioco pesante di certa logica partitica che minaccia di invadere il
nostro campo». «Occorre – secondo Calvesi – respingere le invasioni alle
radici»21. Rilancia su Rinascita quello che è considerato l’intellettuale comunista
più aperto e più critico verso l’Urss, Lucio Lombardo Radice: «Non posso non
dirlo – scrive – non posso nascondere che l’idea di dedicare la Biennale al
Dissenso mi pare sbagliata». Per non dire di Fortebraccio, l’ex democristiano
Mario Melloni, diventato brillante corsivista dell’Unità che giudica il
comportamento dell’ambasciatore Rijov del tutto naturale e legittimo. Ma di
tutti gli attacchi, i più sorprendenti sono quelli del socialista demartiniano
Paolo Grassi e dell’ex ministro delle Finanze, il repubblicano Bruno Visentini,
presidente della Olivetti e della Fondazione Cini di Venezia. Ma le sorprese
non si contano. C’è il semi boicottaggio della Rizzoli che dirà di non avere in
magazzino nessuno dei libri richiesti dagli organizzatori della Biennale, e
quello della Ricordi che negherà le partiture musicali, nonché l’indifferenza
verso la manifestazione della Rai, presieduta appunto da Paolo Grassi, che nega
la sede veneziana della Rai, Palazzo Labia. E l’elenco dei nomi, col passar dei
giorni si infittisce: arrivano i no del rettore di Ca’ Foscari, Feliciano
Benvenuti e della Montedison Snia Viscosa, rappresentata da Paolo Marinotti.
Insomma, pezzi pregiati della cultura, il Gotha dell’impresa, della politica,
che nulla o poco hanno a che fare col Pci, s’inchinano davanti alle minacce di
Mosca, spaventati probabilmente dalle possibili ritorsioni economiche
dell’Urss.

Se tanti e molto importanti sono i siluri lanciati contro la
Biennale del Dissenso provenienti dall’esterno, ancor più pericolosi sono
quelli partiti dall’interno: i tre direttori della Biennale, infatti, si
dimettono e mi lasciano da solo nella difficile opera di costruzione del
programma. Il direttore della sezione Arti visive, Vittorio Gregotti (vicino al
Pci e suo elettore dichiarato) se ne va scrivendo sul Corriere della Sera che
«non si può più realizzare niente di meditato per il 1977». Il regista Luca
Ronconi, direttore del settore Teatro, in quota comunista, dichiara di non
volerne sapere più niente e molla tutto. Infine, anche il democristiano di
sinistra Giacomo Gambetti, direttore del settore Cinema, segue a ruota gli
altri due e comunica che lascia il suo posto. I sovietici, con l’aiuto del Pci,
cercano di isolarmi. Reagisco fulmineamente. Dopo il voto risicato del 24 giugno
che mi dà il via per il programma Biennale del Dissenso, con i pieni poteri di
cui dispongo, all’indomani delle dimissioni dei tre direttori, l’8 luglio,
nomino i responsabili del programma: quattro esuli, i cecoslovacchi Jiˇrí
Pelikan, Antonin e Mira Liehm e il polacco-italiano Gustaw Herling. Un gruppo
di persone meravigliose con le quali, avendo fiutato la parata, già lavoravo
riservatamente da mesi. Sul tavolo ci sono tre proposte di programma: la mia,
quella di Seroni e una terza bozza, venuta fuori all’ultimo momento, del
democristiano Rossini. Di stretta misura viene approvata la mia proposta. Il
dibattito prosegue e con esso le polemiche, ma ormai il direttivo ha votato e
si delinea la Biennale del Dissenso. I consensi, in partenza unanimi, si sono
molto ridotti, il comunista Adriano Seroni vota contro. E questo, dopo
l’affondo di Rijov e la prima ondata di polemiche sovietiche, era abbastanza
prevedibile. Si allineano però anche tutti gli intellettuali vicini al Pci, da
Mario Baratto, preside della Facoltà di Lettere a Ca’ Foscari, al pittore Ennio
Calabria che scelgono l’astensione. Il regista Citto Maselli non arriva alla
riunione perché ha perso l’aereo. Ma per non dar adito a dubbi scrive
sull’Unità l’indomani che anche lui non condivide quel programma bollato dal
Pci come «antisovietico» e frutto delle «strumentalizzazioni socialiste».

Siamo in estate e, dopo la riunione segreta della segreteria
del Pcus, in settembre gli attacchi riprendono incessanti. Parte il coro dei
giornali culturali sovietici. Literaturnija Gazeta, come riferisce nel suo
libro Ugo Finetti, il primo libro a uscire dopo la Biennale del Dissenso, parla
di «merce putrefatta» e Sovietskaja Kultura se la prende con «la provocazione
deliberata» e con «il baccanale dell’astrattismo». Tutta la stampa cita a piene
mani le dichiarazioni degli intellettuali italiani che hanno scritto contro la
Biennale, a partire da quelle di Giulio Carlo Argan. E più si avvicina la data
di inizio più anche Rinascita, L’Unità e Paese Sera ci danno dentro. Günther
Grass motiva la sua mancata partecipazione con il fatto che «determinati temi
politici sono molto difficili da discutere in Italia» dove «il bisogno di
polemizzare è eccessivo». Mentre la manifestazione è già in corso si sviluppa
sulle colonne di Repubblica e su quelle del Corriere della Sera uno scontro
vero e proprio fra lo slavista Vittorio Strada e il poeta russo Josif Brodskij.
Il giornale di Eugenio Scalfari che sino ad allora aveva pubblicato, oltre alle%0D
corrispondenze di Daniela Pasti, un articolo di Elena Croce e uno del direttore,
entrambi a favore della Biennale del Dissenso, apre la discussione sulla
qualità culturale della Biennale. Vittorio Strada, considerato dopo Ripellino
il massimo slavista italiano, che non è certo un intellettuale ossequiente
verso Mosca né è organico al Pci, anche se ha per questo partito un rapporto di
aperto interesse, e che aveva riservatamente aiutato Pelikan, Liehm e Herling
nella preparazione della Biennale, nel suo primo intervento dell’8 dicembre su
Repubblica si esprime con durezza nei confronti della qualità dell’iniziativa:
«La festa di beneficenza è quasi finita. Una volta i poveri soddisfacevano i
bisogni di carità delle anime buone. Oggi, a Venezia, i dissidenti dell’Est
sono sottoposti a questa unica “strumentalizzazione”: quella di regolare le
funzioni dell’organismo etico-politico di qualche benpensante. L’antisovietismo
e l’anticomunismo non c’entrano. E non c’entra, in fondo, neppure il Dissenso,
nella sua indubbia serietà e drammaticità». L’articolo se la prende dunque con
gli organizzatori («una festa di beneficenza che benefica i benefattori») ed
elenca le tante assenze, quelle di alcuni dissidenti e soprattutto le numerose
prese di distanza italiane che hanno fatto parlare di viltà degli intellettuali
nostrani. Vittorio Strada non è però d’accordo con questo giudizio liquidatorio
sulle pavidità del mondo accademico 
intellettuale italiano e attribuisce il mancato coinvolgimento di tanti
accademici e autori al fatto che questi «hanno distinto fra una cosa seria come
il Dissenso (seria più per quello che significa che per quello che è) e una
Biennale sul Dissenso».

Come si vede l’attacco è molto duro e non solo verso i
promotori, ma anche verso una parte dei partecipanti: siano essi dissidenti
dell’Est o intellettuali italiani. Una freccia avvelenata viene lanciata anche
contro Alberto Moravia, reo di aver riconosciuto un valore culturale
all’appuntamento veneziano. A questa intemerata reagisce Josif Brodskij con un
lungo articolo sul Corriere della Sera del 12 dicembre, presentato e tradotto
da Roberto Calasso. Il poeta, che ha preso parte ai lavori della Biennale,
scrive un articolo dal titolo programmatico «Necessario per tutti questo
Dissenso». Premette che anche se a Venezia si fosse svolta una «festa di
beneficenza» non ci sarebbe da lagnarsene troppo. «Come simbolo – osserva – mi
sembra molto più attraente la Croce Rossa che la falce e il martello». Poi
prende di petto l’argomento delle strumentalizzazioni: «Non c’è bisogno di
immergersi a lungo nel calderone della politica italiana per capire che tutta
la messa in scena era stata preparata dal Psi per mostrare la sua indipendenza
dal Pci. Forse avrebbe potuto farlo in altro modo ma il Psi ha scelto il tema
più controverso. Questo argomento non poteva certo piacere al Pci che, come
Strada osserva, non ha ancora sviluppato una linea al riguardo. E così si
spiega l’assenza di rappresentanti del Pci. Ci si domanda però quale linea
potrebbe mai scegliere il Pci: perché qualunque essa sia, non potrebbe che
essere imbarazzante. Sostenere i dissidenti lo porterebbe ancor più in
conflitto col Cremlino, condannarli lo danneggerebbe nel proprio paese. Tanto
meglio perciò che i socialisti si siano occupati loro di questa Biennale». Il
Nobel russo, come si legge, ammette che i socialisti hanno scelto il terreno
del Dissenso per marcare la loro autonomia dal Pci, ma giudica la Biennale e
l’impegno del Psi un fatto positivo. Anche perché i comunisti italiani
sull’argomento non sanno e non possono dire nulla di preciso, stretti come sono
fra i legami con Mosca e l’opinione pubblica democratica del loro paese. Nello
Ajello nel suo libro Il lungo addio interpreta, invece, le parole di Brodskij
come una critica alla Biennale e a Craxi22. Una lettura questa che testimonia
del pregiudizio negativo che esisteva nel confronti degli organizzatori e del
Psi. Del resto, altri stralci dell’articolo del Corriere vengono ripresi e
scagliati contro la manifestazione veneziana. Lo fa Ajello nel suo saggio, ma
anche Strada in uno scritto col quale risponde a Brodskij. Oltre che la frase
citata, i due riportano anche altri giudizi negativi quali «la Biennale è
risultata essere una sequela di monologhi estremamente noiosi» e «la
manchevolezza dell’organizzazione appariva evidente», espressi dal Nobel russo,
per attestare che anche lui giudica la manifestazione inutile e di basso
livello. In realtà è vero il contrario: Brodskij difende l’iniziativa anche se
ne indica alcuni limiti e li critica francamente. E contrattacca. «La Biennale
– scrive sul Corriere della Sera – ha certamente un’aria anticomunista, ma non
potrebbe essere diversamente, in quanto si dà il caso che quei regimi che
esercitano l’oppressione culturale siano comunisti. La condanna del fascismo è
una proprietà comune sia dei progressisti sia dei conservatori. L’anticomunismo
sembra essere considerato tuttora una prerogativa della Destra. Abbandonando
questo tema di dibattito alla Destra, la Sinistra semplicemente lo ruba a se
stessa. E senza questo dibattito il suo sviluppo politico-filosofico rimane stantio».
L’articolo, infine, ingaggia una polemica sferzante con Strada e con gli
intellettuali che hanno disertato Venezia: «Se qualcuno non fa una cosa perché
ha paura di ledere la propria reputazione nel partito, ciò significa che le
cose in Italia sono andate un po’ troppo in là, che all’interno della Sinistra
opera una qualche intimidazione… Per una persona libera una situazione in cui
essa deve adattare le proprie idee alla posizione di qualche maggioranza è una
vergogna. E una persona che è capace di ricavare ragioni di orgoglio da una
tale situazione è soltanto uno schiavo: ora, l’articolo di Strada risplende di
orgoglio e di senso di responsabilità».

Jiˇrí Pelikan, rispondendo ad Antonio Carioti nel suo libro
intervista, vent’anni dopo minimizza: «Perfino Vittorio Strada, che conosceva
benissimo la realtà russa e più tardi avrebbe assunto posizioni di dura
condanna del sistema sovietico, preferì non partecipare di persona, per ragioni
legate al suo lavoro all’Università e alla Casa Einaudi, per la quale doveva
recarsi spesso a Mosca»23.

Le espressioni usate da Brodskij provocano una immediata
reazione dello slavista italiano che interviene su Repubblica del 13 dicembre.
La qualità della replica viene sottolineata dal titolo: «Dissidenti, poeti e
inquisitori». Strada sostiene di non voler scegliere come interlocutore
Brodskij, che ama dialogare solo con una certa opinione pubblica, quella cioè
«convinta che il marxismo sia morto, anzi che sia vivo soltanto come generatore
di Gulag». Al di là del fatto personale («Le polemiche vanno e vengono il
Dissenso resta»), la vera materia del contendere fra il Nobel russo e lo
slavista italiano è fra chi, il primo, ritiene il comunismo irriformabile e
totalitario per vocazione, perché così sta scritto già in Carlo Marx e in
Lenin, e chi, come il secondo, giudica il marxismo come una leva teorica
tuttora utile per il cambiamento a Est come a Ovest; fra chi ritiene comunque
di grande utilità l’impatto politico che ha la Biennale e chi privilegia lo
spessore culturale del Dissenso; fra chi prova gratitudine, anche quando non ne
condivide del tutto le scelte, per il partito politico italiano (il Psi) che
più si è impegnato a sostenere il Dissenso, e chi ha un pregiudizio sfavorevole
verso i socialisti. Scrive fra l’altro Vittorio Strada: «Io credo che più di
tutte le Biennali conti il contributo di idee che i “dissidenti” saranno capaci
di dare al dibattito dei paesi europeo-occidentali e poi il lavoro che con
spirito critico e con competenza analitica daranno gli studiosi, gli
intellettuali, i politici occidentali in una ricerca di nuove forme di
convivenza civile che “i dissidenti” troppo spesso dimostrano di non capire, chiusi
come sono nella loro spesso terribile ma anche sterilizzante esperienza storica
individuale. Non vorremmo che, mentre respingiamo con fermezza una egemonia
sovietica, i “dissidenti”, aiutati da forze politiche nostrane a noi troppo
note, pretendessero a una loro egemonia e, irritati per l’insuccesso, si
impancassero a profeti e inquisitori».

A distanza ormai di trent’anni, si può dare un giudizio su
chi dei due avesse ragione. E cioè su chi anticipava la direzione verso cui la
storia sarebbe andata. Non c’è dubbio che questi era Josif Brodskij: il
comunismo si dimostrò irriformabile, l’Occidente non subì cambiamenti radicali
e di sinistra, anzi arrivò la «rivoluzione thatcherian-reaganiana», il marxismo
vide scemare quasi completamente il peso teorico che aveva allora. Ciò detto
gli interrogativi che poneva Vittorio Strada erano condivisi da una parte
importante dell’intellighenzia italiana che non era né filosovietica, né prona
alle direttive del Pci. Con lui non era invece d’accordo il più grande scrittore
italiano, Alberto Moravia che in un’intervista a Mondo Operaio del dicembre
1977 sostenne: «Pensavo che si trattasse di una Biennale molto politicizzata e
ho visto che, al contrario, la Biennale del Dissenso letterario non è partita
dalla politica. Non ci siamo trovati davanti a scrittori strumentalizzati da
qualsivoglia movimento o corrente politica ma scrittori che hanno espresso il
loro parere sulla letteratura nata dal Dissenso». Quella che si svolse sulle
colonne del Corriere della Sera e di Repubblica nel dicembre 1977 fra Strada e
Brodskij fu dunque una discussione ai massimi livelli, fra personalità di
prim’ordine (uno riceverà il Nobel per la letteratura l’anno successivo), tutti
e due uomini di alta cultura, conoscitori del socialismo reale e del Dissenso.
Fu una polemica senza esclusione di colpi. A dimostrazione di quanto lo spirito
anti Biennale fosse diffuso anche ai livelli culturali più alti.