Identità, quella parola chiave che da Lampedusa porta ad Asmara

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Identità, quella parola chiave che da Lampedusa porta ad Asmara

17 Ottobre 2013

Identità è la parola chiave per capire la tragedia avvenuta a Lampedusa il 3 ottobre scorso. Da una parte c’è il dovere di dare un nome e degna sepoltura ai corpi restituiti dal mare – "jura sancta" – permettendo alle famiglie di attenuare sui sepolcri il dolore della perdita. Dall’altra la necessità dei Governi di identificare i vivi e i morti: per il nostro Paese significa preservare la sicurezza interna e al tempo stesso garantire il diritto di chi chiede asilo. Ma i giovani ventenni scampati al naufragio che si trovano sull’isola spesso non vogliono farsi identificare.

Per chi fugge da un regime postcoloniale di origine marxista approdato al "socialismo africano", com’è quello eritreo, uscito da una sanguinosa guerra d’indipendenza, dove esiste un solo partito, le elezioni continuano ad essere rimandate, la coscrizione militare è permanente, la libertà di stampa all’ultimo posto della classifica di "Reporter Senza Frontiere", il timore dei sopravvissuti sembrerebbe essere quello di subire ricatti o ritorsioni ai danni di chi è rimasto in patria, come si legge in molte denunce online.

Dopo l’iniziale silenzio mostrata subito dopo il naufragio, negli ultimi giorni il governo di Asmara è diventato iperattivo. A Lampedusa è sbarcato l’ambasciatore eritreo accompagnato, dicono fonti locali, da altri rappresentanti diplomatici interessati a conoscere l’identità dei connazionali scampati al naufragio. Il Governo eritreo si è offerto di riportare in Patria, a sue spese, le salme dei morti (quelli identificati). A chiederlo anche le associazioni eritree ufficiali in Italia, con cui il ministro per l’integrazione Kyenge ha voluto aprire un canale di dialogo.

Senza dubbio le famiglie delle vittime hanno il diritto di riavere a casa le salme dei loro cari, ma da dove nasce questo tardivo interesse delle autorità di Asmara? Secondo HRW migliaia di persone lasciano l’Eritrea e i profughi nei campi etiopi sarebbero decine di migliaia, mentre Amnesty denuncia il pugno di ferro delle autorità locali contro gli oppositori interni. L’Alto Commissariato per i rifugiati ha chiesto ai Paesi europei di non rimpatriare in modo forzato gli esuli. Sappiamo che, a volte, le organizzazioni umanitarie tendono a enfatizzare, ma nel caso della Eritrea – la "Corea del Nord del Corno d’Africa" come l’hanno ribattezzata i giornali inglesi – a ricordarci che qualcosa non va sono le sanzioni inflitte al Paese africano dall’Onu.

Gli ispettori delle Nazioni Unite stanno indagando sulla cosiddetta "tassa della diaspora", un balzello che verrebbe imposto ai migranti che vivono all’estero (le rimesse rappresentano una parte consistente del Pil eritreo). Qualcuno in Italia si è preso la briga di verificare le denunce fatte dallo "Eritrean Youth Solidarity for National Salvation" sul mercato illecito dei permessi di soggiorno che fiorirebbe nel nostro Paese? E’ solo propaganda dei movimenti che si battono contro il regime al potere ad Asmara o si tratta di una realtà concreta su cui le autorità italiane dovrebbero investigare più a fondo?

Secondo il Gruppo di Monitoraggio di Somalia ed Eritrea delle Nazioni Unite (UNSEMG), pezzi dei servizi di sicurezza eritrei sarebbero implicati nel business dell’emigrazione. Sempre secondo gli ispettori onusiani parte di quella tassazione occulta, in violazione delle sanzioni, finanzierebbe  la destabilizzazione del Corno d’Africa. L’accusa di sostenere le milizie islamiste somale al-Shabaab venne mossa a suo tempo dall’ex segretario di stato americano Clinton e ancora prima dall’Amministrazione Bush, che nel 2008 inserì l’Eritrea fra gli "Stati canaglia" per aver dato ospitalità a un leader islamista somalo considerato vicino ad Al Qaeda.

L’Europa e l’Italia hanno continuato a mantenere rapporti diplomatici meno conflittuali con il Paese del Corno d’Africa, anche se, nei giorni scorsi, il presidente francese Hollande, in prima linea nell’interventismo europeo in Africa, ha chiesto un cambio di rotta nelle politiche verso i Paesi da cui arrivano i migranti. Ed ecco che l’identità dei singoli individui morti o sopravvissuti a Lampedusa sembra essere inghiottita nelle grandi questioni di frontiera del nostro tempo, sprofonda in un buco nero geopolitico fatto di traffici di uomini e corruzione, frontiere da attraversare in cerca della salvezza e confini da difendere.

Vale la pena chiedersi cosa sarebbe accaduto se davvero il Governo italiano avesse celebrato solenni funerali di Stato per le vittime di Lampedusa, com’era stato promesso senza che sia avvenuto. Il presidente eritreo Afewerki sarebbe finito in una scomoda posizione a livello internazionale, più di quanto non lo sia già?

L’ambasciatore italiano Valensise nei giorni scorsi ha confermato al suo omologo eritreo che le operazioni di riconoscimento delle salme vanno avanti ma ha aggiunto che sono complicate dalle circostanze degli eventi e che in ogni caso l’Italia rispetterà la decisione dei familiari delle vittime rispetto alla destinazione finale delle salme. Anche per la prefettura di Agrigento saranno i familiari a decidere. L’ambasciatore eritreo da parte sua ha voluto smentire il fatto che i parenti avrebbero rifiutato ogni contatto con l’ambasciata. Secondo le autorità italiane una parte delle salme riposeranno nei nostri cimiteri solo con un numero identificativo. Come per il mancato funerale di Stato, anche in questo caso si tratta di italico sprezzo delle vittime oppure è un modo indiretto di tutelare la loro identità?

La domanda che dovremmo farci è quanto possiamo fidarci del governo di Asmara. Pezzi della diaspora eritrea nel mondo chiedono che l’inamovibile presidente Afewerki finisca sotto processo al Tribunale penale internazionale per i crimini contro l’umanità, come sta accadendo al suo collega in Kenya. Inamovibile Afewerki in realtà lo è fino a un certo punto, visto che negli ultimi anni si sono rincorse voci sul suo stato di salute e su presunti "colpi di stato" abortiti sul nascere ad Asmara.

Qual è dunque la posizione del governo italiano rispetto alla situazione politica in evoluzione in Eritrea? E’ vero che una parte della comunità internazionale, gli Usa e il loro alleato nel Golfo come il Qatar, spingono sulla questione del traffico di uomini strumentalizzandola per destabilizzare il regime? E noi stiamo con l’uomo forte di Asmara e i suoi sponsor a Mosca e a Pechino o con i movimenti e le forze che gli si oppongono dall’interno e dalla diaspora, l’Eritrean Democratic Alliance piuttosto che il G-15 decapitato e finito agli arresti?

Com’è accaduto anche con la Libia (Afewerki era un sodale del Colonnello Gheddafi, contrario alle sanzioni Onu verso l’Eritrea), quel grumo di responsabilità vecchie e nuove che deriva dai nostri trascorsi coloniali nel Corno d’Africa e dai più recenti interessi economico-politici italiani nell’area rende tutto più opaco e complicato da decifrare. Intanto le identità sospese a Lampedusa ondeggiano tra ospitalità e sicurezza, accoglienza e rifiuto, paura e speranza.

Per lungo tempo l’Eritrea non si è sforzata di raggiungere gli standard richiesti dalla comunità internazionale nella lotta al traffico di uomini. Non si sono visti passi avanti significativi nelle politiche migratorie né c’è stata trasparenza sui dati del cosiddetto "esodo". Nel 2013 il governo di Asmara sembra aver dato un primo segnale ufficiale di prevenzione mettendo in guardia i cittadini dai pericoli a cui vanno incontro quando lasciano il Paese (molti finiscono rapiti dalle bande di predoni e dai trafficanti sulle rotte che dal Sudan portano verso il Sinai o la Libia). Ma per chi ha pagato oro il lungo viaggio verso le strette porte dell’Europa ormai era troppo tardi.