Il 14 Luglio Sarkò prenderà la Libia neanche fosse la Bastiglia

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Il 14 Luglio Sarkò prenderà la Libia neanche fosse la Bastiglia

28 Giugno 2011

Allo spirito rivoluzionario e apparentemente pro-democratico della Rivoluzione dei Gelsomini, in Egitto e Tunisia, sono succeduti una serie di conflitti sanguinosi di natura tribale e religiosa, in Libia, Siria e nello Yemen. Vale la pena redigere un calendario a breve termine di quello che accadrà nel mese di luglio, con una serie di date e appuntamenti non rimandabili, e la promessa di rivederci ad agosto con nuovi aggiornamenti.

 

Libia. 14 Luglio, segnatevi questa data perché potremmo ricordarcela a lungo. Parlando off the records nel weekend, il presidente Sarkozy ha anticipato che l’annuncio della “missione compiuta” contro Gheddafi potrebbe coincidere con le celebrazioni della presa della Bastiglia, previste appunto il 14 Luglio prossimo. Sarkozy è stato il principale artefice della campagna libica e nei giorni scorsi ha difeso la missione criticando con malcelata asprezza e una certa dose di cinismo il segretario di stato Usa Robert Gates, che aveva accusato gli europei di non essere bravi a fare la guerra da soli. Sarkò gli ha risposto che Obama è troppo intelligente per non sapere che i Droni americani non fanno certo la differenza nella sconfitta del Rais. La Francia è in prima linea nella guerra e, nonostante le difficoltà incontrate fino adesso dalla NATO, non ha rinunciato all’idea di cogliere la corona d’alloro della vittoria. Il 12 luglio, però, due giorni prima del "Bastiglia Day", Sarkozy dovrà superare uno scoglio, il voto parlamentare per prolungare la missione. La sinistra e i socialisti iniziano a fremere e se il conflitto si prolungasse ancora per il presidente sarà più difficile tenere unita una maggioranza che tutto sommato è stata bipartisan sull’intervento. (Negli Usa, Obama si è dovuto accontentare di un doppio voto alla Camera, confuso, ostile ma compromissorio, che da una parte rivendica il diritto del Congresso di confrontarsi con le decisioni in politica estera del comandante supremo e dall’altro concede ancora una volta a Obama l’uso dei Droni). Francesi e inglesi devono anche vedersela con gli altri Paesi NATO che spingono per una soluzione politica del conflitto, Italia in prima fila. Basteranno davvero due settimane per chiudere la partita con Gheddafi? E’ improbabile ma chissà. Il rais finora ha dimostrato di avere mille risorse e continua a resistere, anche se ormai il controllo del territorio da parte delle forze lealiste di è ridotto a meno della metà del Paese. Negli ultimi giorni, mentre proseguivano i criticatissimi bombardamenti dell’Allenza su Tripoli, i ribelli si sono fatti sotto, ingaggiando le truppe del Colonnello, e dalle montagne occidentali stanno fluendo verso la Capitale (era già previsto all’inizio della rivolta, poi le tribù montane si astennero). Ci si aspetta un ultimo attacco in grande stile degli insorti da Est, anche se, conviene ripeterlo, il Colonnello ha dimostrato di saper rovesciare le attese a suo favore. Ieri, il Tribunale Penale Internazionale ha spiccato un mandato di cattura contro Gheddafi, con una lista di capi d’accusa lunga così, compresi stupri e torture. I fedelissimi hanno già preso contatti con le forze dell’Alleanza, prima dell’ultima ridotta. Il giorno della presa della Bastiglia effettivamente si sta avvicinando.

Bahrein e Arabia Saudita. Il primo luglio partirà ufficialmente il dialogo sulle riforme economiche, politiche e sociali in Bahrein. Da una parte la monarchia dei Khalifa, indecisa se proseguire nella repressione delle proteste tramite l’uso della forza o aprire alle riforme sul modello marocchino (sempre che funzioni), e dall’altra i manifestanti e i partiti dell’opposizione, espressione della maggioranza sciita del Paese, dicono spalleggiata da Teheran (i Khalifa appartengono alla minoranza sunnita alleata dei Saud). Il rischio di una deriva settaria che faccia scorrere altro sangue c’è, e lo si è visto nelle piazze del piccolo regno del Golfo, ma il destino del Bahrain, che forse è anche la sua fortuna, è di essere legato a filo doppio all’Arabia Saudita, il potente vicino che lo scorso marzo ha amichevolmente inviato un contingente armato di 4.000 uomini nell’arcipelago per ristabilire l’ordine. I sauditi saranno i grandi protagonisti dell’estate controrivoluzionaria nel mondo arabo. Non hanno digerito la caduta di Mubarak, ritenuto uno dei bastioni dell’alleanza con gli Usa (diverso il caso di Gheddafi, mai amato per la sua eccentrica visione dell’islam), e soprattutto temono che le divisioni emerse in Bahrain possano contagiare il lato orientale del Regno, mettendo a repentaglio la successione monarchica ed influenzando la stabilità e magari l’integrità della nazione. Riad ha almeno due carte da giocare per tenersi buoni gli Usa e le potenze occidentali: continuare a fare da scudo all’espansionismo di Teheran nel Golfo Persico (insieme alle altre petrocrazie del Golfo, Qatar, Emirati Arabi, Oman), e far salire la produzione del greggio, visti i problemi di rifornimento generati dal conflitto libico. Il mese prossimo, i sauditi hanno promesso di aumentare unilateralmente di oltre un milione di barili al giorno la produzione di oro nero, dopo la decisione presa dalla Agenzia Internazionale della Energia di metter mano alle riserve strategiche dei Paesi sviluppati per far fronte alla domanda mondiale ed ai forti rialzi del barile registrati negli ultimi tempi. Dal primo luglio, l’Agenzia, che riunisce oltre 20 Paesi, immetterà sul mercato due milioni di barili al giorno in più per un mese. Nelle ultime 48 ore il prezzo del greggio è tornato a scendere. Se le famiglie americane (negli Usa scende anche il prezzo del gas) e gli europei potranno partire tranquilli per le vacanze, i Saud resisteranno a ogni cambiamento come del resto hanno sempre fatto.

Siria. La prima settimana di Luglio Abu George, un albergatore della città siriana di Aleppo, ha deciso che chiuderà la sua attività in una delle mete vacanziere più belle del mondo arabo. Gli ultimi turisti europei sono arrivati a Marzo e dall’inizio della sanguinosa repressione ordinata dal presidente Hassad il registro del suo hotel è rimasto desolatamente vuoto. Parlando nei giorni scorsi alla Siria dopo lunghe settimane di silenzio, Bashar Assad ha detto che il Paese si trova “a un punto di svolta” e che vuole riemergere con forza dai “complotti” che hanno cercato di affossarlo. In realtà il pugno di ferro usato per reprimere la primavera locale sta avendo un prezzo esorbitante: già ad aprile, l’FMI aveva rivisto al ribasso il tasso di crescita dello stato arabo, dal 5,5 per cento al 3 per cento, una cifra destinata ulteriormente ad abbassarsi se pensiamo a cosa è successo negli ultimi mesi. Se è vero che il presidente ha messo in guardia dal “collasso siriano”, un’iperbole buona, secondo alcuni, per legittimare il bastone e far riannusare al popolo la carota delle “riforme”, l’impressione è che di solito i governi assassini non hanno tra le loro priorità il benessere sociale e individuale. (Gli Assad tra l’altro non hanno nessuna seria strategia di sviluppo per l’economia: il turismo è crollato com’è avvenuto in Egitto). L’unica soluzione sembra quella dettata dalle armi. 1.400 vittime dall’inizio della repressione, bambini e ragazzi compresi. Ieri 200 attivisti dell’opposizione si sono riuniti pubblicamente a Damasco chiedendo una “transizione pacifica”. Hanno dimostrato coraggio ma non sarà così facile. La pressione dei profughi rischia di far saltare in aria il riavvicinamento con Ankara degli ultimi anni (le truppe siriane nel weekend hanno inseguito i ribelli fino a 300 metri dal confine con la Turchia, Davotoglu ha richiamato il suo ambasciatore per protesta), le sanzioni americane ed europee pesano, e che qualcosa stia iniziando a sfuggire di mano agli Assad lo si deduce dal fatto che Hezbollah avrebbe iniziato a riportare in Libano le armi di provenienza iraniana “conservate” in Siria (le agenzie stampa dicono che negli ultimi giorni nel nord del Libano il prezzo dei kalashnikov è schizzato). I fuoriusciti siriani si armano, il Partito di Dio ‘sfiducia’ il suo sponsor a Damasco, e se le defezioni nella catena di comando militare del regime alawita dovessero estendersi sensibilmente l’estate degli Assad potrebbe farsi ardente.

Marocco. Il primo luglio si vota il referendum in Marocco e capiremo se le riforme annunciate da Re Mohammad VI, legittimo discendente del Profeta e sovrano a detta di molti moderato, diventeranno tali. La monarchia marocchina promette di rinunciare a una parte dei suoi poteri ed ha saputo anticipare le spinte provenienti dalla piazza. L’obiettivo del movimento giovanile "20 Settembre" è stanare il monarca sul parlamentarismo, chiedendo maggiori regole democratiche ed un pieno riconoscimento dei diritti umani, ma in Marocco la libertà di stampa continua ad essere un lusso, chi disturba il manovratore può finire in prigione, e non è detto che i giovani accettino le aperture del sovrano sapendo di avere il coltello dalla parte del manico. La minaccia del regime change è sempre dietro l’angolo. Se invece Mohammad riuscisse nel suo intento il Marocco potrebbe diventare un modello di transizione pacifica alla democrazia per altre monarchie arabe, dalla Giordania al Bahrain.

Egitto. Per adesso sono cinquantamila gli attivisti egiziani che si sono dati appuntamento l’8 luglio per un’altra grande manifestazione in Piazza Tahrir, vogliono elezioni e riforme costituzionali subito, sull’onda del cambiamento. Ma i generali frenano per paura di perdere i privilegi acquisiti lungo una vita e i Fratelli Musulmani si oppongono perché il tempo gioca dalla loro parte. La Fratellanza insiste nel voler spostare le riforme dopo le elezioni (nei mesi scorsi ha votato con il partito di Mubarak contro il referendum per la modifica di alcuni passaggi della Costituzione). La situazione al Cairo non è delle migliori: sabato scorso le fazioni dei nostalgici e dei rivoluzionari si sono prese un’altra volta a sassate: i pro-Mubarak chiedono che il Rais, ammalato e detenuto nell’ospedale di Sharm, sia liberato. Gli altri vorrebbero che andasse all’inferno. L’estate sarà il momento degli attesi processi alla nomenclatura di regime: sul banco degli imputati ci sarà, tra gli altri, l’ex primo ministro Nazif, accusato di corruzione, e i colpevoli della mattanza di Piazza Tahrir. Va segnalato anche l’incarico di nuovo ministro degli esteri affidato ad Al-Orabi: dopo le intemperanze dei mesi scorsi, l’idea di rinegoziare la pace di Camp David, e il Canale di Suez aperto alle navi militari iraniane, il ministro Orabi ha fatto sapere di voler agire “in continuità con la storica posizione culturale e diplomatica dell’Egitto”. Le elezioni, attualmente, sono previste per il mese di Settembre.

Tunisia. A Luglio ci si aspetta che venga formata la nuova Assemblea Costituente che riscriverà la Costituzione e condurrà il Paese alle elezioni fissate per ottobre (in un primo momento erano state previste per agosto, poi sono slittate). Anche la Rivoluzione dei Gelsomini, da dove, lo ricordiamo, è partito tutto, sembra aver rallentato la sua corsa durante il percorso accidentanto verso la democrazia. Non è chiaro se l’enorme sprigionarsi di libertà ed impegno politico seguito alla caduta di Ben Alì produrrà grandi risultati o solo caos: finora si sono costituiti ben 94 partiti politici che potrebbero diventare facilmente un centinaio prima del voto. Apparentemente, la Tunisia sembra più instabile dell’Egitto, ma scavando in profondità la sensazione è che ha delle chances di riuscita maggiori: qui si è scelto di procedere prima con la Costituente e dopo con il voto. Anche a Tunisi, però, i manifestanti sorvegliano i nuovi poteri con manifestazioni e sit-in improvvisati. La buona notizia è che il Paese ha deciso di aderire alla Corte Penale Internazionale, primo tra gli stati nordafricani. Quella cattiva che Al Qaeda nel Maghreb islamico potrebbe sceglierlo come un’oasi di addestramento e rifornimento.

Algeria. La stabilità della Tunisia influenza la vicina Algeria, dove l’ultimo degli autocrati nordafricani rimasti al potere, il presidente Bouteflika, cerca di destreggiarsi (come ha sempre fatto) fra autoritarismo (la settimana scorsa c’è stati un morto negli scontri) e costituzionalismo (per aprire alla opposizione che vorrebbe mandarlo a casa). I giornali algerini annunciano una riforma del sistema dell’informazione per renderlo più libero e competitivo, ma il segretario generale della Commissione incaricata di modernizzare la Costituzione si è dimesso, dando vita a nuove proteste. In realtà nelle città algerine non si è mai smesso di manifestare, molto prima che scoppiassero le Arab Spring.

Yemen.

Il 17 luglio, il presidente yemenita Saleh rassegnerà le dimissioni, designando il proprio successore e rimodulando i giochi di potere fra le tribù del Paese. Lo Yemen è uno stato chiave per la stabilità del Golfo Persico. Se l’ingresso del Mar Rosso, stretto fra lo Yemen, l’Etiopia e l’Eritrea, dovesse destabilizzarsi (almeno 60 sospettati di Al Qaeda sono recentemente fuggiti dalle prigioni yemenite), per l’Occidente sarebbe uno scenario gravissimo, destinato a riverberarsi fino al Cairo e in tutto la penisola arabica. Il presidente Saleh è stato ‘esiliato’ a Riad con la scusa di curarlo dopo le ferite riportate durante l’assalto del suo palazzo avvenuto qualche settimana fa. I sauditi e l’amministrazione Obama spingono perché non faccia ritorno a casa, almeno fino alla sua successione. Stessa richiesta arriva dai giovani rivoluzionari che però accusano d’interferenze gli Usa e Casa Saud. La presidenza ad interim dovrebbe durare fino alle elezioni previste nel settembre del 2013.