Il 25 aprile ci ricorda che siamo stati tutti un po’ fascisti
26 Aprile 2008
Per quali ragioni, ove si eccettui una ben caratterizzata area politica e culturale, la ricorrenza del 25 aprile non è popolare in Italia? Naturalmente la prima che viene in mente riguarda l’appropriazione della ricorrenza da parte della sinistra non liberale. Come ha scritto sul ‘Giornale’ del 24 aprile Massimo Teodori (si veda l’articolo L’esproprio proletario dell’antifascismo): “Si è ridotto l’antifascismo a una categoria metafisica sostanzialmente equivalente alla democrazia secondo la declinazione data dal Pci. Secondo l’intellettualità della sinistra frontista non si poteva essere, al tempo stesso, antifascisti e anticomunisti, perché i due termini erano considerati contraddittori. In tal modo si delegittimava l’intera storia degli antifascismi cattolico, liberale, democratico e socialista riformista che, in quanto distinti e spesso divergenti dall’antifascismo comunista, non potevano avere memoria storica né diritto di cittadinanza politica. Lo stesso discorso vale per l’interpretazione della Resistenza. Quello che fu un capitolo storico, peraltro limitato ad alcune regioni del centro-nord che videro l’insurrezione partigiana negli ultimi giorni dopo che gli Alleati anglo-americani avevano fatto il grosso della guerra nazifascista, divenne nel corso del tempo una specie di mitologia astorica, da cui furono espulsi i contributi dei partigiani delle formazioni non comuniste e dei corpi dell’esercito italiano che pagarono contributi non indifferenti di sangue”. Meglio non si poteva spiegare un’operazione politico-culturale volta a ridurre la democrazia ad attributo dell’antifascismo, a identificare nel comunismo il nocciolo duro dell’antifascismo e quindi a rendere contraddittorio, per la democrazia, l’essere sia antifascista sia anticomunista. In tal modo, non è la democrazia che benedice l’antifascismo ma è l’antifascismo che legittima la democrazia nella misura in cui la seconda diventa consapevole del fatto che il cemento armato del primo – il suo momento più radicale e più coerente – è costituito dal comunismo. Il comunismo sta all’antifascismo come gli ordini mendicanti – domenicani, francescani – stanno alla Chiesa cattolica: non fanno parte della res publica cristiana i loro nemici.
Resta ancora da spiegare, tuttavia, perché lo ‘scippo’ simbolico sia riuscito al punto tale che per una gran parte dell’opinione pubblica italiana, antifascismo e Resistenza sono associati alla propaganda comunista o comunque sinistro-radicale e, pertanto, vengono considerati ‘cose loro’. Nel ’48 il Fronte popolare si diede come emblema Giuseppe Garibaldi eppure non per questo l’eroe dei Due Mondi, nell’immaginario collettivo, venne appiattito sulla falce e martello. Nel 1953, i monarchici esposero un manifesto con la scritta “il liberale Cavour avrebbe votato così”, che mostrava il gran Conte con la scheda elettorale dispiegata e la croce su ‘Stella e Corona’, eppure il massimo artefice dell’unità italiana rimase un monumento patriottico estraneo al mondo dei rissosi partiti degli onorevoli Alfredo Covelli e Achille Lauro, PNM e PMP.
Cosa dire allora? Che la Resistenza non è popolare perché, a ben guardare, non coinvolse ‘il popolo’? Che le masse siano rimaste alla finestra, a guardare, con un sentimento di trepidazione e di angoscia, la ‘guerra civile’, che si scatenò a nord di Roma dopo l’8 settembre, è un fatto innegabile, che può essere contestato solo da quanti credono che i duecentomilacinquecento partigiani iscritti, il 26 aprile 1946, nelle varie formazioni combattenti, abbiano combattuto per davvero e ignorano che molti hanno profuso il loro impegno nella ricerca di una camicia rossa che sostituisse quella nera. No, a rischiare la vita contro i tedeschi invasori furono pochi ma è quanto si verifica nella stragrande maggioranza degli eventi storici che hanno segnato un’epoca e rivoltato da cima e fondo una società. Fu una minoranza ad accorrere sotto le bandiere di George Washington, furono alcune migliaia gli studenti e i popolani arruolati nei vari eserciti di volontari che nel 1848 si costituirono in diverse regioni italiane. Sono sempre le ‘minoranze eroiche’ – per usare espressioni care ad Alfredo Oriani e a Piero Gobetti – a fare gli stati e le rivoluzioni e l’ottobre sovietico non fa certo eccezione. Sennonché, i ribelli nordamericani, i patrioti italiani, i soldati dell’anno II in Francia sono entrati nel Pantheon nazionale, diventando oggetto di culto anche per i discendenti di coloro che ‘non avevano preso parte’ agli eventi ‘fondatori’, e che, ‘sventurati’, avrebbero dovuto dire “io non c’ero”. Gli eroi sono tali in quanto merce rara e, come tale, onorata da tutti: come per gli apostoli e i profeti, la loro celebrazione avviene solo post mortem ma, in compenso, diventano un patrimonio spirituale collettivo, come la Torre di Pisa e il Colosseo.
Orbene, tornando all’antifascismo, sarà un caso che una nobilissima figura di antifascista come Duccio Galimberti sia conosciuta solo dai militanti di partito, dai cultori di storia e, naturalmente, dagli abitanti di Cuneo mentre il carabiniere Salvo D’Acquisto, che s’immolò per salvare la vita di ostaggi pronti ad essere fucilati dagli occupanti tedeschi, è conosciuto, se non da tutti gli italiani, per lo meno da un numero crescente di persone, la maggior parte delle quali non s’intende di storia né milita in un partito? Sarebbe riduttivo spiegare l’impopolarità dei ‘martiri’ dell’antifascismo con il loro apparire come un’élite severa e intransigente, disposta a sacrificare la vita in nome di un ideale – un’%C3