Il 25 Aprile dei “Partigiani Blu”
25 Aprile 2016
Il 25 Aprile del 1945 le truppe americane liberano Milano e Torino, mentre scoppia l’insurrezione contro le forze occupanti a Genova. Il Fascismo è caduto, la Seconda Guerra mondiale è agli sgoccioli, l’Italia ha avuto la sua “Gettysburg”. Da allora, ogni anno, le massime autorità del nuovo Stato repubblicano celebrano con solennità questa ricorrenza, incontrando i partigiani che in quelle sanguinose giornate si batterono a fianco degli Alleati nelle principali città italiane.
Ma c’è voluto del tempo per rendere omaggio a tutti, davvero tutti quei combattenti. Persone come il carabiniere Salvo D’Aquisto, come i militari dell’esercito del Sud e tanti piccoli ‘eroi’ rimasti a lungo ignoti alla memoria del Paese. Si prenda Andrea Giovene, scrittore e nobile napoletano che si era battuto orgogliosamente da ufficiale nei ranghi dell’esercito regio, nelle campagne di Grecia e di Albania e poi sul fronte russo, prima di finire in un campo di concentramento nazista e raccontare il suo periglioso ritorno a casa nella monumentale Autobiografia di Giuliano di Sansevero, opera decisiva per comprendere la Seconda Guerra mondiale e il dopoguerra in Italia.
Tradotta in diverse lingue, in odor di Premio Nobel, nel nostro Paese l’Autobiografia ha trovato scarso spazio editoriale (è di qualche anno fa la nuova edizione dell’originale e frammentata prima uscita con Rizzoli), forse perché il suo autore aveva messo alla berlina con la stessa foga l’avventurismo militare fascista, la vigliaccheria di Casa Savoia, il germe del cancro partitocratico all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Ci vorranno decenni prima di “riabilitare” quelle centinaia di migliaia di uomini – i soldati spediti sui fronti delle guerre fasciste – dimenticati rapidamente, a dispetto delle poche decine di migliaia di partigiani che, per lungo tempo, sono stati gli unici e assoluti protagonisti dell’antifascismo. Quella di Giovene fu una “Resistenza interiore” di cui si è colpevolmente perso traccia.
C’è un altro e ben più noto romanzo che ha sempre punto sul vivo i depositari, veri o presunti, della mitologia resistenziale: Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, scrittore che al suo esordio, nel 1952, quando uscirono i racconti de I ventitré giorni della città di Alba, fu duramente criticato dal quotidiano L’Unità: “Fenoglio ci presenta degli strani partigiani, che stanno tra la caricatura e il picaresco, che combattono per avventura o addirittura per niente e per nessuno…”. Giudizio che fa il paio con quello epresso a decenni di distanza dal giornalista Giorgio Bocca: “Fenoglio della Resistenza non ha capito nulla. Io di quei venti mesi ho una idea politica e storica. So qual è il valore della Resistenza, so perché il sogno che la innervava è naufragato. Fenoglio è come Pansa”.
Pansa Giampaolo: se la ‘dark side’, la metà oscura della guerra civile italiana, quella fascista, per molto tempo era stata esplorata solo da ex repubblichini, e simili – a metà degli anni Ottanta fu Giordano Bruno Guerri, direttore della collana di narrativa italiana per Arnoldo Mondadori, a far pubblicare il romanzo A cercar la bella morte dell’ex combattente della Repubblica Sociale Carlo Mazzantini – è con i libri di Pansa che anche l’altra metà del cielo viene per così dire “riabilitata” e portata alla luce dei media.
Ma tornando a Fenoglio dove sta la particolarità del suo romanzo? Nell’aver saputo intrecciare il resoconto autobiografico, la sua estrazione familiare culturale e sociale, l’esperienza fatta a fianco dei “partigiani blu” (badogliani, liberali e conservatori), con una dimensione epica, una “epica storica”, in cui la Resistenza viene spogliata della sua retorica, e della guerra restano gli uomini, brutali e poetici, eroici e laceri, che si trascinano nel fango e si tolgono la vita uno con l’altro.
Una narrazione che fin dal titolo, per non parlare dell’impasto linguistico, è un tributo all’America degli Hemingway e dei Dos Passos, a Shakespeare come al nostro Ariosto, e dunque un’ode all’individuo libero della Civiltà occidentale, intraprendente e coraggioso: un ideale cavalleresco che unisce gli (anti)eroi di Fenoglio e quelli di Giovene. Ferito e in fuga dalla Germania, Giuliano di Sansevero dona i suoi ultimi vestiti di lana a una famiglia di profughi polacchi, “in Dio e con gli uomini generoso”.
Sono i destini dei singoli a fare la Storia, gli amori, le amicizie, i viaggi, le lotte, la morte (“Ricordati che senza i morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso”), il palcoscenico dello scandaloso romanzo breve Una questione privata, un’opera meno conosciuta di Fenoglio che fa sbiadire Uomini e no di Vittorini o Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino (le scuole italiane si sono dovute accontentare per molto tempo della Agnese va a morire di Renata Viganò). Proprio Calvino dirà che Una questione privata fu il romanzo che tutti gli scrittori coetanei di Fenoglio avrebbero voluto scrivere.
Anche in Johnny regna la disillusione e non si sa neppure che fine faccia il partigiano alla fine del romanzo, se sia vivo o morto. Una delusione che deriva dal chiedersi e ragionare su quello che poteva essere e non è stato. Quale fu, per esempio, il valore dei mancati processi ai fascisti da parte dei tribunali Alleati nel dopoguerra? Per alcuni crearono una sorta di ‘spazio vuoto’ che si riempì di ritorsioni e di vendette, secondo altri, invece, favorirono una transizione, per quanto possibile pacifica, verso la democrazia, facendo da argine al comunismo sovietico. Ma al di là di queste domande resta la capacità, tutta letteraria, di Fenoglio, di andare oltre la Storia raccontando delle storie private, delle testimonianze fotografate nel momento in cui accadevano, e probabilmente per questo, più avvincenti e realistiche di molta storiografia sulla Resistenza.
Anche da quest’epica liberale però restano tagliati fuori i fascisti, che l’autore non riesce a giudicare né a raccontare, un nemico imperscrutabile che può essere solo sconfitto. Negli anni Settanta, Renzo De Felice avrebbe spiegato la composizione sociale del Fascismo e i motivi per cui le classi sociali emergenti che lo avevano generato e sostenuto erano destinate comunque ad entrare a far parte della Storia repubblicana. In Fenoglio non c’è ancora questa coscienza o se c’è emerge a sprazzi. Per onorare i “piccoli eroi dimenticati” della Resistenza (e non) sarebbe utile, allora, ripartire da un dialogo tra Johnny e un ufficiale repubblichino durante una tregua del conflitto. “Bene: che farete, ragazzi, dell’Italia?”, chiede il fascista. “Una cosa alquanto piccola ma del tutto seria”, risponde Johnny. Aye, Sir.