Il 4 maggio 1979 il governo inglese si tingeva di rosa con la Thatcher
04 Maggio 2011
“Dove c’è discordia, che si possa portare armonia. Dove c’è errore, che si porti la verità. Dove c’è dubbio, si porti la fede. E dove c’è disperazione, che si possa portare la speranza”. Parafrasando San Francesco D’Assisi, il 4 maggio di trentadue anni fa Margaret Thatcher apriva la porta del 10 di Downing Street dando avvio all’unica, controversa e allo stesso tempo affascinante, “pink premiership” della storia del governo inglese.
Quando, dopo aver vinto le elezioni generali a capo del partito conservatore, si sedette sulla poltrona di Primo Ministro, la Thatcher costrinse una Gran Bretagna che la stampa definiva il “grande malato d’Europa” a guardare in faccia la realtà.
Con tutta la ruvidezza, il pragmatismo e la determinazione per cui poi è diventata proverbiale, la “Lady di Ferro” prese di petto la spesa pubblica, l’inflazione, i sindacati quando il Paese era piagato dalla recessione del 1980-1982, rifiutandosi di seguire la teoria economica keynesiana, allora dominante, che imponeva di stimolare la domanda. Erano anche i tempi della seconda crisi petrolifera, della rivoluzione iraniana, dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, la guerra fredda era al culmine, i sovietici piazzavano i loro missili contro le democrazie libere. Tutte crisi che la Signora gestì quasi sempre in prima persona.
Il ciclone thatcheriano rivoluzionò lo status quo: i conservatori cambiarono linguaggio, stile, regole. Sotto la guida della figlia del droghiere di Grantham, il partito trascese i limiti dell’upper class che l’aveva prodotto procacciando voti ovunque, anche nelle classi borghesi o lavoratrici. E, cosa che per i Tory rappresentò una folgorazione e per i laburisti uno shock, li trovò. Certo, la frangia “senior” dei conservatori storcevano il naso e i suoi stessi compagni di partito coniarono per lei una lista infinita di appellativi e nomignoli poco lusinghieri, usati nei club tra un sigaro e un whisky. La chiamavano “Tina”, che sta per There is no alternative, non c’è alternativa. Oppure “Tbw”, That bloody woman, quella maledetta donna. Ma, in fondo, l’ammiravano oltremisura.
Icona del femminismo, la donna “dalle labbra di Marilyn e gli occhi di Caligola” (come la definì François Mitterrand) è stata uno dei leader britannici più odiati e amati allo stesso tempo. I suoi ammiratori – i più fervidi sostenitori del liberismo – dicono che abbia contribuito a ringiovanire l’economia del Regno Unito, mentre i suoi detrattori – buona parte dei britannici di sinistra la odiavano visceralmente – affermano che la sua politica sia servita soltanto ad aumentare il numero di disoccupati e ad aumentare il divario fra ricchi e poveri. Ma il fatto che i governi successivi, sia conservatori che laburisti (emblematico in questo senso Tony Blair), abbiano mantenuto in vita gran parte delle sue riforme, la dice lunga su quanto lungimirante fosse la sua visione della politica.
“La gallina quando canta ha fatto l’uovo. Il gallo, invece, canta per niente”, usava dire nelle occasioni pubbliche. La storia le ha dato ragione.