Il Belgio spaccato non è che un microcosmo dell’Unione Europea

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Il Belgio spaccato non è che un microcosmo dell’Unione Europea

16 Giugno 2010

L’ultima volta che in Belgio si tennero le elezioni politiche, nel 2007, ci vollero 282 giorni per formare una maggioranza di governo. Adesso si è votato di nuovo, e questa volta creare una maggioranza parlamentare potrebbe essere ancora più difficile.

Tra i candidati di lingua olandese nelle Fiandre, al nord, la maggior parte dei voti è andata a Bart De Wever, un populista che descrive i francofoni del sud paese come “dipendenti ormai assuefatti” dei trasferimenti fiscali dai parsimonioso fiamminghi. Vuole dividere il sistema fiscale in due, così come il welfare e la maggior parte della spesa pubblica. Il re e la nazione chiamata Belgio possono restare, per il momento, ma la “naturale evoluzione” delle Fiandre, dice De Wever, va verso la piena indipendenza.

Tra i francofoni, che costituiscono il 40% della popolazione belga, il più votato è stato Elio Di Rupo, un socialista il cui grido di battaglia è “solidarietà” tra i belgi (vale a dire, continuare con i trasferimenti dalle Fiandre). Sebbene il debito pubblico del Belgio sia pari al 99% delle entrate, Di Rupo promette aumenti oltre l’inflazione per spesa sanitaria e pensioni. L’ultima sua trovata è stata quella di chiedere il controllo dei prezzi su duecento beni, tra i quali pane e latte. Ebbene, una maggioranza di governo dovrà essere trovata attraverso il consenso tra questi due uomini.

Non è stata una campagna elettorale memorabile. I leader belgi si sono riferiti assai poco alla grande questione della crisi economica, la peggiore in una generazione. Hanno preferito scontrarsi sui diritti linguistici di una serie di enclave fiamminghe nella comunità francofona, e su altri misteri locali.

Per anni, il Belgio federale è stato un esempio per l’Unione Europea, nel quale il potere sarebbe fluito verso l’alto, dalle regioni sempre più su fino a un superstato europeo, lungo un processo che alla fine avrebbe fatto degli stati nazionali altrettanti gusci vuoti. Non sorprende che ai belgi una tale prospettiva piaceva: prometteva infatti di sciogliere il loro problematico regno in seno agli Stati Uniti d’Europa (dei quali Bruxelles sarebbe stata la capitale). Ma l’Europa ha preso una strada diversa. Gli stati nazionali si sono dimostrati duri a morire, e la politica europea ha finito per essere dominata da alcuni leader nazionali.

In effetti, anche queste elezioni hanno fatto del Belgio una sorta di modello per l’Europa: un’unione in cui le divisioni nord-sud compromettono l’integrazione politica ed economica. Si consideri il repertorio propagandistico di De Wever. Le sue rivendicazioni non si limitano ad attaccare i miliardi di euro di trasferimenti dalle Fiandre al sud. Lancia l’accusa secondo cui gli ispettori del fisco sono assai meno zelanti nel sud. Lamenta che le autostrade delle Fiandre sono disseminate di autovelox, mentre quelle della Vallonia ne sono sgombre. Il ministro del budget regionale, suo compagno di partito, si è lamentato della frugalità della finanziaria fiamminga, che punta a realizzare un surplus entro il 2011, laddove i governanti francofoni di Bruxelles e della Vallonia si preparano a lasciar correre il deficit per altri cinque anni. Un responsabile per la sanità dell’N-VA, il partito di De Wever, ha parlato di profittatori, tariffe gonfiate e “abusi francofoni” negli ospedali del sud.

Anche a nord del Belgio, in Olanda, di Europa si è appena parlato nelle elezioni politiche del 9 giugno. Però Mark Rutte, leader del partito liberale di destra VVD e primo ministro in pectore, ha promesso drastici tagli nei versamenti dell’Olanda alla Ue, e ha liquidato come “riciclaggio di denaro” i fondi europei destinati alle aree arretrate dell’Unione. Si tratta di segni evidenti di uno scontro culturale nord-sud, che in Germania arrivano sulle prime pagine dei giornali quando la stampa locale chiede perché mai i tedeschi debbano pagare i greci per mandarli in pensione a 55 anni.

Ciò di cui hanno bisogno è disciplina

Tutto ciò influisce sull’Europa. Il continente è diviso tra un blocco germanico determinato a salvare l’euro attraverso la disciplina di bilancio e un blocco meridionale, guidato dalla Francia, che vuole salvare la situazione attraverso prestiti a basso costo per mezzo degli Eurobond, trasferimenti dai ricchi e poveri nel quadro di una “unione fiscale” e altre cose del genere.

Ma se il Belgio, cioè un singolo stato, sta lottando strenuamente per preservare la propria unione fiscale, che speranze può mai avere l’Europa di crearne una da zero? I sostenitori sudisti della “solidarietà” accusano i nordisti di egoismo. Si tratta di un’evidente semplificazione: la disputa in atto non si riduce a una questione di soldi. Il Belgio offre all’Europa un’ulteriore lezione: affinché gli elettori acconsentano a un trasferimento delle proprie risorse, devono essere sicuri che chi le riceverà possa essere democraticamente chiamato a rendere conto di come le usa.

I motivi per i quali il Belgio sta morendo come nazione sono tanti, e uno dei principali è la sua mancanza di democrazia nazionale. I meridionali che credono nel Belgio non possono votare contro De Wever. Gli elettori fiamminghi preoccupati del deficit statale non possono fare nulla per sanzionare lo spendaccione Di Rupo. Questo deficit democratico si riproduce a livello europeo. La Germania è stata criticata per aver proposto regole punitive per l’Eurozona, in base alle quali i membri che non rispettano i patti perderebbero i fondi comunitari o il diritto di voto. A vederla con gli occhi di un belga, nel migliore dei casi la Germania è ossessionata dalla stabilità monetaria, nel peggiore è un prepotente egoista. Ma l’attenzione tedesca alla disciplina di bilancio è probabilmente un tentativo di introdurre un “deficit democratico”. I tedeschi potrebbero ritrovarsi a salvare la Grecia e la Spagna, senza avere alcun potere per scegliere un governo spagnolo o greco che si impegni nelle riforme. Il prossimo passo potrebbe essere quello di legare il salvataggio a regole vincolanti in modo che i governi meridionali prendano sul serio le cose che piacciono agli elettori tedeschi.

I sognatori europeisti dicono che un’unione fiscale continentale può essere costruita sulla legittimità del Parlamento europeo. Nel mondo reale, la maggior parte degli elettori non sa chi è che li rappresenta a Strasburgo, né è interessata a saperlo. Costruire un edificio tanto grande su una base così fragile è avere la sicurezza di vederlo crollare. Va bene, rispondono quei sognatori, alle prossime elezioni europee i presidenti della Commissione europea e alcuni membri dell’Europarlamento dovranno candidarsi in collegi paneuropei. Una volta che il continente abbraccerà le politiche paneuropee, ogni ipotesi di unione fiscale o di bilancio comune diventerà possibile. Suona abbastanza logico; ma le divisioni europee sono assai profonde. Chiedete al Belgio, una nazione di dieci milioni di persone in piena lotta per arrivare a politiche panbelghe.

Tratto da The Economist

Traduzione di Enrico De Simone