Il biologico non è un piatto per poveri
04 Luglio 2008
Premetto di non essere contro il biologico, è un business come un altro che segue le leggi del mercato ed in certi contesti ha anche una sua valenza socio-ambientale e capisco anche che il recente vertice FAO abbia esposto il fianco ad attacchi e critiche di ogni genere, ma pensare di coltivare il futuro ovvero nutrire 9 miliardi di persone (tanti ne saremo nel 2050) con l’agricoltura biologica mi sembra un po’ esagerato, quasi un’offesa all’intelligenza ("La sfida del Biologico",
Primo – le cose semplici vanno dette in maniera semplice: il biologico (quello che si trova nel supermercato, non quello che compriamo dall’amico contadino, perché è al primo che si riferiscono numeri e statistiche, non al secondo) non è una cosa per poveri perché costa di più. È ovvio che sia così: se l’agricoltore, coltivando in biologico, quindi con meno strumenti (chimici), è disposto a produrre di meno, dovrà caricare sull’unità di prodotto “più naturale” il costo (perdita di prodotto) che ha dovuto sostenere per produrlo. Inoltre c’è un effetto mercato: se c’è domanda di biologico, in seguito ad una maggiore attenzione dei consumatori all’aspetto salutistico dell’alimento, il prezzo sale.
Secondo – non è detto che il biologico sia poi così environmental friendly: accettare di produrre meno per unità di superficie coltivata significa dover produrre su una maggiore superficie, sottraendola a boschi e foreste, per avere una stessa quantità di cibo.
Terzo – i milioni di contadini che producono in biologico a cui si riferiscono le statistiche non sono (se non in minima parte) quelli che operano localmente, ma quelli che del biologico hanno fatto un’attività commerciale, e non naturalistica-ricreazionale, rendendo questi prodotti disponibili al grande pubblico. Capisco che i pensieri filosofici possono accattivare il lettore («il locale consente un’alleanza totale con la porzione di natura con cui si ha a che fare e la comprensione della sua complessità, che per forza di cose sfugge ancora alla scienza e si intuisce soltanto con l’esperienza…») ma l’agricoltore si trova ad operare in un mondo reale e non virtuale.
Quarto – la dimensione locale di cui tanto si parla è allo stato attuale un modello di sviluppo sì importante per la sopravvivenza di comunità e tradizioni che andrebbero altresì perse ma non è certo proponibile come sistema generale di approvvigionamento. Da un lato la produzione locale potrebbe non essere sufficiente a soddisfare la domanda dei grossi centri urbani, dall’altro non esistono le infrastrutture e gli assetti sociali per consentire agli abitanti dei centri urbani un facile accesso ai cosiddetti mercati locali. Nei paesi in via di sviluppo la dimensione locale è spesso insufficiente a soddisfare la domanda di cibo perché “locale” significa “assenza di acqua per irrigare”, significa produzioni bassissime, significa necessità di portare tecnologie e stabilità sociale in queste aree per farle uscire dallo stato di crisi cronica.
Quinto – non c’è mai un limite alle chiacchiere: «il biologico-locale consente di uscire da un’economia schiava del petrolio e dei combustibili fossili […] sfruttando quasi esclusivamente l’energia solare e la capacità naturali degli esseri viventi di trasformarla in cibo». No comment (ma l’aratro ed il cavallo sono stati abbandonati da tempo… ci sarà un motivo?).
Sono d’accordo, c’è un po’ di confusione sul biologico. Sì è vero che esistono al mondo milioni di contadini che praticano il biologico e soprattutto nel Sud del mondo lo fanno da sempre per tradizione. Ma c’è una pesante differenza fra tradizione e necessità. E nel Sud del mondo “per tradizione” troppo spesso si muore di fame.