Il braccio armato di Putin ora si chiama Gazprom

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Il braccio armato di Putin ora si chiama Gazprom

13 Luglio 2007

Uno Stato nello Stato, come l’Eni di Enrico Mattei. Gazprom
ha il monopolio dell’attività estrattiva del gas naturale in Russia e ne
assicura la distribuzione, in patria e all’estero (l’estensione della rete di
gasdotti ha superato i 150mila chilometri); impiega più di 400mila persone; ha
un giro d’affari colossale, con profitti attorno al miliardo di euro nel 2006;
differenzia fortemente le proprie attività imprenditoriali, che spaziano
dall’editoria ai trasporti aerei, dalle banche alle assicurazioni; è presieduta
da Dmitry Medvedev, il primo vicepresidente della Federazione russa (e si
vocifera che il presidente Putin, alla scadenza imminente del suo duplice
mandato vorrebbe la carica per sé); ha avviato un progetto per la realizzazione
di una cittadella della Gazprom a San Pietroburgo (un po’ come Metanopoli). E
adesso, grazie a una proposta di legge approvata dalla Duma a larghissima
maggioranza (ma per entrare in vigore c’è ancora bisogno di un passaggio alla
seconda camera, il Consiglio della federazione), potrà disporre di un vero e
proprio esercito privato – un privilegio esteso alla Transneft, l’azienda
statale che controlla la rete di oleodotti.

I contractors, gli addetti privati alla sicurezza, hanno
conquistato la ribalta mediatica con la guerra in Iraq: ma la riprivatizzazione
della guerra è un fenomeno in forte espansione dalla caduta del muro di Berlino,
uno degli aspetti salienti della guerra di quarta generazione – quella
combattuta non solo dagli Stati ma da gruppi armati (privati, estremisti,
terroristici, etnici) che hanno obiettivi autonomi o privatistici. Gazprom e
Transneft, però, non si limiteranno a servirsi di imprese di sicurezza: come
del resto già fanno oggi per assicurare protezione ai propri impianti e
impiegati; ma assumeranno direttamente soldati privati, che potranno disporre
di un arsenale fornito dal ministero dell’Interno e godranno di un’ampia
libertà nell’uso di queste armi. E le ragioni di questa iniziativa sono evidenti
e convergenti: da una parte, i rischi del terrorismo interno (ceceno) e
internazionale che sempre più punta al sabotaggio esplosivo delle pipelines –
accade in Iraq, accade nel Balochistan pachistano, accade in Cecenia e nel Caucaso
– per infliggere pesanti danni economici e politici; dall’altra, le
inadeguatezze degli eserciti nazionali che, a parte numericamente esigue
eccellenze, non sono attrezzati per combattere con efficacia i nuovi nemici –
men che mai le forze armate russe, il cui degrado in uomini e mezzi appare
inarrestabile.

Ma altrettanto giustificati, per l’Occidente e i vicini
della Russia, sono i timori che suscita la creazione di eserciti privati per
Gazprom e Transneft. Infatti, l’esportazione attraverso gasdotti e oleodotti
delle risorse naturali russe e dell’Asia centrale è diventata per Mosca il
principale strumento della propria politica estera; e ci si chiede se questi
eserciti privati verranno chiamati a difendere le pipelines anche fuori del
territorio nazionale: trasformandosi in ulteriore strumento di pressione verso
i clienti che dipendono dalle forniture energetiche dalla Russia, o comunque
beneficiano dal transito sul loro territorio. D’altro canto, questa
militarizzazione può essere letta anche come una risposta ai recenti tentativi
della Nato: che si sta proponendo come fornitore di sicurezza alle
multinazionali dell’estrazione petrolifera (le prime contattate, Dutch Shell e
BP: in relazione soprattutto alle loro attività offshore ) per contrastare – in
Africa e Medio Oriente – atti di sabotaggio e pirateria, rapimenti compresi;
che ha proposto un accordo all’Oman, per la protezione armata degli impianti
dell’industria del gas liquefatto da esportazione. Un nuovo capitolo, insomma,
del grande gioco del’energia che è ormai diventato globale.