Il calcolatore biologico
19 Giugno 2009
Dalla Storia Galattica, vol. CXIV, "Evoluzione dei calcolatori".
«Dopo la conquista della Luna e l’esplorazione dei pianeti interni, si vide che le condizioni ambientali in cui i calcolatori dovevano operare con elevato affidamento erano spesso molto diverse da quelle ideali di un centro di calcolo sulla Terra o su un veicolo spaziale. I disturbi indotti dalle variazioni di temperatura, pressione e composizione chimica nei circuiti o nelle unità di memoria delle macchine non potevano più essere tollerati, specie quando l’installazione di un avamposto governato o retto da un calcolatore doveva precedere l’impianto di una base permanente o di una colonia. A causa di ciò, viste le limitazioni intrinseche dei calcolatori tradizionali, venne ripresa una vecchia idea, quella del calcolatore biologico, la cui teoria era stata sviluppata una trentina d’anni prima. Secondo questa teoria (appendice XXIII), il calcolatore doveva essere costituito da due parti, una tradizionale, inorganica, e una organica o biologica. Era la robustezza e la tolleranza di quest’ultima alle variazioni delle condizioni ambientali rispetto a quelle di progetto che permetteva alla macchina di operare dove un calcolatore tradizionale avrebbe fallito. La resistenza della componente biologica, si era provato, veniva enormemente accresciuta se essa era formata da una o più coppie di organismi simbionti. Si era infine dimostrato, anche sperimentalmente, che il massimo rendimento si raggiungeva quando uno degli organismi in simbiosi era quello di un essere umano.
«La teoria, e soprattutto la sperimentazione, si erano qui urtate con tutta una serie di problemi etici, filosofici e religiosi. La questione, uscita dai ristretti circoli specialistici, aveva appassionato l’opinione pubblica, che aveva reagito in modo energico, tanto che c’erano stati anche episodi di contestazione violenta contro i ricercatori impegnati in questa direzione. Uno dei condottieri della contestazione, certo Lurd, aveva scritto un veemente libello (testo nell’appendice XXXV), composto da brevi slogan cuciti insieme da una consequenzialità efficace anche se spesso dubbia. Una serie di slogan, ad esempio, sosteneva la tesi che era la ‘curiosità ormonale’ a spingere gli scienziati sulla strada della ricerca, e non un farneticante amore per la verità o un dubbio spirito filantropico. Alcuni scienziati avevano con passione difeso il loro operato, che – essi sostenevano – mirava a riscattare sempre più l’umanità dalle miserabili condizioni che ne costituivano l’angustioso retaggio naturale. I potentati economici, spinti dall’interesse ad appoggiare il progetto dei biocalcolatori, avevano sposato e sostenuto le tesi dei ricercatori, ma questa mossa incauta aveva dato esca all’opposizione. Vi erano stati alcuni pubblici dibattiti, in cui – nonostante intimidazioni, minacce e soprusi – alcuni delatori avevano denunciato gli interessi dei potentati nell’operazione e smascherato la malafede di alcuni scienziati. Gli altri ricercatori, amareggiati, delusi e inaspriti da una contesa che, uscendo dall’ambito puramente tecnico in cui si erano illusi di poterla circoscrivere, aveva assunto coloriture politiche e toni passionali e quasi isterici, si erano chiusi in un riserbo irritato e assoluto.
«In breve il movimento contrario aveva avuto ragione dell’iniziativa e solo alcuni gruppi isolati avevano proseguito nella clandestinità le ricerche e – si diceva – anche la sperimentazione. In alcune sale, riservate, del Museo centrale della Scienza e della Tecnica si sono a lungo conservati alcuni prototipi, grotteschi e vagamente raccapriccianti, risalenti alla prima fase sperimentale.
«Ma dopo trent’anni di continua evoluzione, le macchine (in particolare i calcolatori tradizionali) erano giunte a un tale grado di complessità e raffinatezza e riuscivano a compiere in modo perfetto compiti così delicati, che molte di quelle che erano state ritenute differenze qualitative invalicabili tra uomo e macchina si erano rivelate barriere incerte e labili, ed erano via via cadute, provocando una fioritura di speculazioni filosofiche, di cambiamenti nei costumi sociali e perfino nelle abitudini quotidiane. In breve tali modificazioni erano state accolte nel diritto e avevano ricevuto un’adeguata sanzione legislativa. Di conseguenza si era di molto attenuato certo rigore morale, o non esisteva più affatto, e al suo posto si rilevava una più elastica accettazione di fatti e fenomeni le cui implicazioni venivano giudicate, se non con indifferenza, certo con minore apprensione e vigilanza.
«I futurologi di quel periodo (vedasi vol. CCCXXII) si erano esercitati a fare previsioni sul possibile sviluppo di questi nuovi atteggiamenti. Taluni sostenevano che l’assimilazione progressiva delle macchine agli uomini avrebbe comportato l’estensione a quelle del codice morale vigente per questi, basato a quei tempi sull’intrinseca dignità e rispettabilità in ogni circostanza della persona umana. Altri, più pessimisti sulla natura umana, che ritenevano violenta e aggressiva nel fondo, pronosticavano una ribellione degli uomini contro le macchine, quando si fossero avveduti del crescente predominio che queste loro creature, nate per essere schiave, venivano conquistando in ogni settore. Troppo tardiva, e pericolosa, veniva però giudicata la ribellione, e destinata al fallimento proprio a causa dell’estrema dipendenza che l’uomo ormai tributava alle sue macchine. Di fatto vi furono alcuni episodi d’intolleranza: alcuni centri di calcolo dei potentati e dei ministeri vennero distrutti, alcuni robot domestici vennero fracassati sulle piazze al cospetto di folle plaudenti; ma si trattò di eventi singoli, e il Governo contribuì a renderli isolati con accorte provvidenze legislative e fiscali.
«In realtà il progressivo assottigliarsi delle differenze tra uomo e macchina comportò che azioni, atteggiamenti e condotte da sempre ritenuti leciti nei confronti delle macchine cominciassero ad essere considerati leciti anche nei confronti degli uomini.
«In luogo dunque di un’assimilazione verso l’alto delle macchine all’uomo in dignità e rispetto, l’assimilazione si sviluppò verso il basso, all’insegna dell’indifferenza, dell’asservimento, della prevaricazione e, a volte, della brutalità. Fin lì le macchine erano state schiave dei fini e delle mire degli uomini; ora gli uomini divenivano schiavi delle mire e degli scopi di qualcuno o di qualcosa che non si riusciva a identificare con precisione, che sembrava trascendere gli individui, i gruppi e la comunità intera, ma che certo aveva una sua realtà di fatto.
«In questo quadro si collocò anche la riflessione dottrinaria di certe conventicole filosofiche la cui influenza doveva, come si vedrà in seguito, diventare enorme, e che predicavano la teoria del Non est necesse (vedasi il vol. CCCXXIII, parte III), la cui tesi principale era che – oltre un certo grado di sviluppo – la presenza dell’uomo non solo non è sufficiente, ma neppure necessaria per il mantenimento e l’ulteriore avanzata della civiltà.
«Questo svilimento della funzione dell’uomo veniva riecheggiato nelle elaborazioni teoriche dei genetisti, secondo i quali la parte che l’evoluzione, nel suo indefinito svolgimento, aveva assegnato all’uomo poteva ritenersi esaurita con l’avvento dei calcolatori capaci di riprodursi (vedasi il capitolo successivo). Contribuiva infine alla svalutazione delle capacità e della dignità degli esseri umani il crescente segreto di cui venivano circondate le conquiste tecniche, sempre più astruse ed esoteriche. La diminuzione del numero degli esperti di alto livello e la loro progressiva specializzazione li privilegiava e li divideva sempre più profondamente dal resto dell’umanità. La gran maggioranza degli uomini, esclusi dai riti della scienza e della tecnica, tenuti in conto solo per il potenziale economico o elettorale che rappresentavano, finirono col rifugiarsi, irrequieti e incupiti, in uno sfrenato consumo di tutto ciò che si potesse acquistare. Alcune esigue minoranze si gettarono in fumose e deliranti forme di misticismo inconcludente e ossessivo, donde riemergevano solo per ostacolare, invano, certe decisioni governative che per qualche motivo non condividessero.
«Com’era prevedibile, in quest’atmosfera disattenta, tra una popolazione più sollecita del proprio immediato vantaggio che vigile degli effetti lontani, la ripresa del progetto dei calcolatori biologici non provocò quasi alcuna reazione. La decisione di circoscrivere esseri umani, mostruosamente legati per sempre a simbionti bizzarri o ripugnanti, entro i limiti angusti e soffocanti di una macchina di cui diventavano i proni servitori, non colpì in modo particolare l’opinione pubblica. A ciò contribuì la massiccia campagna, condotta dal Consiglio e dal Governo e orchestrata dai potentati economici, volta a illustrare i grandi vantaggi che la produzione dei biocalcolatori avrebbe arrecato all’umanità. Così una pratica che alcuni decenni prima aveva sollevato una quantità di problemi e di contrasti, che aveva appassionato filosofi e scienziati, che aveva visto giudici e teologi discettare, distinguere, dibattere, pontificare e confutare, una pratica di portata così capitale per il futuro interno ed esterno dell’uomo fu accettata, o subita, senza quasi dispute e discussioni.
«Stabilito che uno dei due simbionti doveva essere un uomo, era necessario scegliergli come compagno di carcere un organismo capace di opporsi alle reazioni di rigetto (allora non ancora debellate) e nello stesso tempo non troppo invadente. Due simbionti scelti bene potevano offrire garanzie di robustezza, autonomia e resistenza, sopperendo così alle inefficienze della parte inorganica, la quale a sua volta – mediante rigorosi controlli a più livelli gerarchici – avrebbe provveduto a ridurre entro limiti accettabili le inevitabili fluttuazioni, indecisioni e dispersioni della componente biologica.
«Furono costruiti alcuni prototipi per verificare l’idoneità dei diversi simbionti. I genetisti trovarono infine la componente più adatta allo scopo. Per la produzione in serie si decise di scegliere gli uomini tra coloro che, giunti al venticinquesimo anno, si erano rifiutati di pronunciare il giuramento di fedeltà al Consiglio, come prescritto dalle leggi.»