Il Califfo su YouTube e la rivolta degli inserzionisti di Google
28 Giugno 2017
E’ nella pericolosissima terra di mezzo di internet che la “chiamata” alla Jihad, la Guerra Santa, viene alimentata da anni e con successo dal terrorismo islamico. Il collegamento tra la piattaforma video YouTube e il terrore jihadista è quanto mai radicato. I terroristi islamici hanno capito che la piattaforma video più famosa al mondo può essere essere letale come i coltelli che usano per sgozzare gli “infedeli”. I jihadisti utilizzano proprio i video per diffondere il loro messaggio, reclutare nuova manovalanza, indottrinarla e organizzare attentati. All’inizio di giugno il Telegraph raccontava che l’antiterrorismo inglese era riuscito a monitorare i movimenti di una cellula jihadista nella zona del London Bridge – prima dell’attentato – proprio attraverso YouTube, eppure la piattaforma proprietà di Google non è servita a impedire la carneficina. YouTube è diventato un covo virtuale per imam ed esperti reclutatori di “martiri”, ogni video pubblicato è stato, ed è, parte della missione contro l’Occidente.
Eppure YouTube tende a rimuovere raramente questo tipo di contenuti criminali. Dei 100 video di Osama bin Laden e della glorificazione dell’attacco alle Torri Gemelle 58 sono rimasti on line fino ad oggi. Sono passati anni dall’11 Settembre, ma quei video sono ancora lì. Dei 127 video contrassegnati come pericolosi di Anwar al-Awlaki – imam statunitense naturalizzato yemenita – 111 non sono stati toccati. Dei 125 ritenuti più sensibili del leader di Al Qaeda, Ayman Al-Zawahiri, 57 sono ancora reperibili. E si potrebbe continuare a lungo. Recuperare filmati che suonano più o meno con un “ecco come muore un soldato di Allah”, oppure “i martiri dell’islam muoiono con il sorriso” è alla portata di tutti.
YouTube a riguardo offre una vetrina ben fornita, e nella stragrande maggioranza dei casi, al massimo, la piattaforma video vi avviserà che si tratta di “age-restricted content”, contenuti inadatti ai minori, e vi chiederà un mero click per procedere, così che in totale libertà potrete godere dello spettacolo: le immagini di cadaveri sorridenti sono online e sono fonte d’ispirazione per le giovani leve islamiste. Qualche settimana fa, l’Istituto di ricerca del Medio Oriente (MEMRI) ha pubblicato un rapporto che rivela la totale incapacità di Google nel rimuovere i contenuti inneggianti all’odio (hate speech) che promuovono e organizzano il terrorismo islamico. E’ più o meno dal 2010 che viene chiesto ai padroni di internet di intervenire sui contenuti islamicamente sensibili e in più occasioni anche Google ha promesso che sarebbero stati più attenti, eppure in questi anni non è cambiato praticamente nulla.
Anche perché i jihadisti sfruttano gli strumenti digitali per la loro ‘missione’ non solo per tutte quelle operazioni che vanno dal reclutamento al proselitismo, ma anche per la raccolta di fondi necessari al finanziamento della loro guerra santa. Già un’inchiesta del Times aveva evidenziato l’utilizzo da parte dello Stato islamico & Co delle pubblicità di celebri marchi per ottenere denaro dai click sui loro video. E poco male se si tratta di marchi e prodotti che sono l’esemplificazione di quello stile di vita tutto occidentale che i jihadisti odiano tanto, tutto può servire alla causa: dai suv delle più prestigiose aziende automobilistiche ai supermercati snob, persino istituti di ricerca e ong per i malati terminali.
E’ stato calcolato che i terroristi incassano decine di migliaia di sterline ogni mese: considerato il numero di visualizzazioni dei video e che ogni migliaio di click gli permette di incassare circa 7 euro, le casse della jihad informatica non sono mai vuote. Non è un caso che a marzo importanti marchi come At &T, Verizon, Johnson & Johnson, Enterprise Holding e GSK hanno iniziato a ritirare l’autorizzazione della pubblicità a Google Inc. – proprietario di You Tube – per non correre più il rischio di finire sponsor della propaganda islamica. Eppure quelli di YouTube garantiscono che il loro “staff visiona video segnalati 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana per determinare se violano la nostra Comunità”, ma a quanto pare c’è qualcosa che non funziona. Secondo la società di analisi Nomura Instinet, You Tube potrebbe perdere fino a 750 milioni di dollari in introiti pubblicitari a causa di quei contenuti sponsorizzatri che vanno a finanziare il terrorismo e chi promuove l’omicidio su vasta scala. Una cifra che non rischia di mettere nei guai le casse di Google, ma che testimonia che gli inserzionisti siano sempre più preoccupati.
In un editoriale del Financial Times, uno dei consulenti di Google ha ammesso l’esistenza di contenuti terroristici e promesso l’impegno a renderne più complicata la pubblicazione con un non meglio specificato “metodo di reindirizzamento per disperdere i messaggi di reclutamento dei jihadisti”. Eppure in Italia il Codacons ha denunciato come inadatti e inefficaci i sistemi di controllo, come pure i “gravi ritardi nell’attività di intervento di Google”. Non si riesce a capire come sia possibile che nessuno sia capace di bloccare la diffusione di certi contenuti, non si riesce a spiegare perché risulti tanto difficile per l’antiterrorismo prevenire le stragi con gli stessi sistemi con cui questi soggetti le organizzano, resta misteriosa la scelta dei padroni di internet di affidare la gran parte del lavoro a meri algoritmi che intelligenti quanto vuoi restano pur sempre una macchina che può essere aggirata dai malintenzionati.
E comunque il problema non è solo l’estrema inerzia con cui Google si sta muovendo per trovare un rimedio, ma che cosa, in questo momento, è censurato dai signori di Internet e cosa no. Appena si osa uscire dagli schemi del politicamente corretto, interviene una sorta di “polizia del pensiero”, che si mette a ‘perseguitare’, penalizzandoli, vlogger con centinaia di migliaia di fan ma allergici al pensiero dominante, e che di certo non mostrano immagini di teste decapitate. Lo stesso impegno però a quanto pare non viene profuso con i video del terrorismo islamico. Se il paragone poi è quello tra gli sforzi, le forze impiegate e gli investimenti profusi da Google per contrastare la islamofobia, e quelli fatti invece per prevenire indottrinamento e reclutamento jihadista, la bilancia pende dalla prima parte. E’ evidente che questo stato di cose proseguirà almeno fino a quando i padroni del web non smetteranno di trattare i musulmani come una specie di “gruppo protetto”, non curandosi dei pericoli del terrorismo in Rete.
Siamo in un clima culturale (o multiculturale) che ha compromesso il significato di parole ed espressioni come “incitamento all’odio”, “terrorismo”, “estremismo”, “religione di pace”, lasciando che questi concetti assumessero dei contorni vaghi e indeterminati, fornendo a Google e YouTube i giusti paraocchi. Per esempio non si ammette mai che quello del terrorismo islamico sia incitamento all’omicidio di massa: in questi termini ogni prospettiva sarebbe davvero ridimensionata. Due pesi e due misure? Così sembra. C’è una strana atmosfera sul web e nel mondo occidentale, in cui una perversa malizia sventola sul concetto di libertà di parola. E in questo silenzio imbarazzato e imbarazzante, gli unici a rallegrarsi sono i terroristi islamici.