Il calo demografico nei Paesi ricchi si è fermato e adesso si fanno più figli
07 Agosto 2009
Negli anni ’70 si diceva che "il miglior contraccettivo è il benessere". Beh, i tempi sono cambiati, le mode sono cambiate, e anche questo slogan oramai è superato. Quando un Paese raggiunge livelli di sviluppo molto elevati, la natalità riprende a crescere. E non soltanto grazie alla chiara e maggior propensione a far figli degli immigrati.
E’ quanto emerge da uno studio che sarà pubblicato sul prossimo numero dell’autorevole rivista Nature. Gli autori della ricerca – Francesco Billari dell’Università Bocconi di Milano, Hans Peter Kohler e Mikko Myrskylä della University of Pennsylvania – dimostrano come alcuni Paesi sviluppati abbiano invertito già da alcuni anni i trend legati al calo demografico. Tanto da avvicinare l’obiettivo dei 2 figli per donna, e raggiungere la "sostenibilità demografica", un obiettivo, questo, che finora è stato raggiunto solo in 3 Paesi dell’Occidente, vale a dire Stati Uniti, Francia e Islanda.
Prendendo in esame 179 Paesi del mondo, i 3 demografi hanno messo in relazione il tasso di fertilità con un indicatore creato negli anni ’80, "l’Indice dello sviluppo umano". Quest’ultimo considera sì la ricchezza di un Paese, e in particolare il reddito medio procapite, ma anche la speranza media di vita e la diffusione dell’istruzione. "Questi ultimi due parametri sono importanti perché ― come ha spiegato il Nobel per l’economia Amartya Sen ― la ricchezza da sola non basta a misurare il tasso di sviluppo di un Paese", precisa il professor Billari. In particolare, la speranza di vita media tiene conto anche dell’efficienza del sistema sanitario e della presenza di disparità sociali: "Più le disuguaglianze sono alte, più sale il tasso di mortalità infantile, abbassando di conseguenza anche la vita media".
"La fertilità Usa è tornata a crescere nel 1976, quando l’indice ha toccato il valore di 0,881; in Norvegia la svolta c’è stata nel 1983 a 0,892; in Israele la data-pivot è il 1992 con un indice tarato a 0,880". In altre parole, quando l’indice di sviluppo umano supera quota 0,86 il tasso di fertilità ricomincia a crescere. Ma come ogni regola, anche questa ha le sue eccezioni. "Nonostante l’alto tasso di sviluppo, in Giappone, Corea e Canada la crescita demografica non accenna a riprendere. In Giappone, per esempio, l’indice di sviluppo umano ha già superato quota 0,94 ma l’indice di fertilità resta fermo a 1,26 figli per donna – spiega Billari – il nostro studio utilizza dati del 2005, rilevazioni più recenti ci fanno pensare che in Canada la crescita demografica stia riprendendo. L’eccezione, insomma, non sarebbe più tale".
Per quanto riguarda Giappone e Corea, invece, i demografi hanno un’altra ipotesi: "Sono entrambe nazioni in cui le disparità di ‘genere’ sono ancora forti. La famiglia ha un ruolo importante, in cui gli uomini lavorano molto e le donne hanno il doppio carico di lavoro dentro e fuori casa". Insomma, l’indicatore di sviluppo umano dovrebbe forse prendere in esame anche un terzo parametro: le relazioni tra uomini e donne e la parità dei sessi.
E in Italia? "Per noi l’anno della svolta è stato il ’94 quando abbiamo raggiunto un indice di sviluppo umano pari a 0,892", spiega ancora Billari. In 15 anni il nostro Paese è quindi risalito dal tasso di (in)fertilità record di 1,2 figli per donna all’1,35 attuale. Non che la situazione sia completamente cambiata ma almeno un primo passo in avanti è stato fatto: l’Italia è al 19° posto nella classifica dell’indice di sviluppo umano presa in considerazione dai demografi. Il margine di miglioramento è notevole anche sul fronte della fertilità: nella classifica dei figli per donna siamo sì fermi al 29° posto, ma a ogni incremento di 0,05 punti nell’indice di sviluppo corrisponderebbe un aumento dello 0,2 del tasso di fertilità. E’ poco, ma è un segnale positivo.
Nel Mezzogiorno però le donne fanno sempre meno figli e questo potrebbe essere spiegato dal fatto che l’indice nel Mezzogiorno non ha ancora superato la fatidica quota 0,86. Ma non è escluso che ― come avviene in Giappone e in Corea ― possano influire fattori legati alle dinamiche familiari.
L’ultima questione è legata all’immigrazione. Quanto influisce sui tassi di fertilità nei Paesi più sviluppati? "Non direi proprio che le cose possanno essere messe in questo modo ― risponde Billari ― gli immigrati danno un contributo ma bisogna tenere conto che, una volta stabilizzati nel nuovo Paese, anche loro cominciano a fare meno figli. E poi basta vedere l’esempio della Francia: Oltralpe l’immigrazione è in calo mentre il tasso di fertilità è in crescita, al punto da sfiorare ormai i 2 figli per donna". Morale: "Un Paese con un alto indice di sviluppo umano attrae di più gli immigrati ma convince anche gli abitanti storici a fare figli".
La ricerca non si sbilancia nella valutazione delle politiche che incentivano le famiglie ad allargarsi. "Paesi che hanno in comune tassi di fertilità elevati hanno raggiunto l’obiettivo attraverso vie diverse. Negli Stati Uniti il reddito procapite molto elevato permette a ciascuno di costruirsi un welfare familiare su misura, fatto di tate e baby sitter. In altri Paesi si è puntato di più sui servizi pubblici", conclude Billari. Studiosi a parte, spetta a ciascuno di noi individuare la propria ricetta.