Il “cambio di regime” resta l’unica chance per un Iran democratico
28 Aprile 2010
Gli osservatori internazionali cercano alacremente soluzioni al problema iraniano e mentre Obama continua a manifestare la volontà di andare avanti con la diplomazia, dalle colonne della rivista Commentary Micheal Rubin propone uno scenario diverso. Partendo dalle prospettive attuali Rubin disegna un piano che si può riassumere in formula vecchia ma efficace: regime change. Passare dalle parole ai fatti, però, è molto complicato, soprattutto se si parla di Iran.
Durante e dopo la manifestazione di febbraio, nell’anniversario della Rivoluzione del 1979, Obama ha mantenuto un basso profilo per evitare di essere accusato dal regime iraniano di aver fomentato i manifestanti. Ma secondo Rubin, il Presidente americano viene consigliato male, e la diplomazia con Ahmadinejad non serve più. La forte ideologizzazione dello stato teocratico iraniano e l’imprevedibilità dei gruppi radicali che lo compongono rendono inutile ogni sforzo nelle relazioni verso l’Iran. Per cui occorre rimuovere il regime stesso.
Ma come si fa a riuscirci senza incappare in una guerra dagli esiti incerti? A Washington qualcuno vorrebbe puntare sulla carta delle divisioni etniche, incoraggiando una “guerra civile” tra le minoranze che compongono il tessuto sociale iraniano, ma anche questo sarebbe un errore: in Iran esiste un forte attaccamento alla bandiera, e al tempo stesso un risentimento diffuso nei confronti degli stranieri “colonialisti” (russi e britannici in particolare), rei di non aver permesso alla repubblica islamica di allargare i propri confini politici in relazione alla reale influenza di Teheran nell’area circostante. Il sentirsi parte di una Persia grande e multietnica è un sentimento diffuso e radicato tra gli iraniani. La stessa Guida Suprema Khamenei non è persiano al 100% ma di origini azere.
Soluzione numero due: puntare sulla diaspora, cioè sui leader in esilio forzato all’estero. Anche in questo caso, però, Rubin considera anacronistici quegli esiliati che non mettono piede sul suolo iraniano da prima del 1979 e perciò non conoscono il loro stesso popolo, le sue esigenze, il suo modo di pensare. L’unica via d’uscita costruttiva allora sembra quella di “concentrarsi su misure che rafforzino gli sforzi della società civile e paralizzare le Guardie della Rivoluzione.” Da qui un vademecum di misure atte a raggiungere questo obiettivo: imporre sanzioni alla popolazione iraniana; tagliare fuori la Banca Centrale; finanziare direttamente i gruppi di opposizione popolari; fomentare il movimento di protesta sindacale; colpire le Guardie della Rivoluzione; liberare le comunicazioni e coinvolgere i media. Una strategia complessa e integrata che richiederebbe uno sforzo su più fronti e chi si fa molto dura in alcuni punti.
Innanzitutto si dovrebbe andare oltre le blande sanzioni dell’Onu, finalizzate ad “esercitare una vigilanza” che non spaventa i mullah. Togliere la benzina e il kerosene, due combustibili indispensabili per la vita in Iran (la prima permette alle persone di muoversi, la seconda di riscaldare le case), secondo Rubin provocherebbe massicce sollevazioni popolari, come già è successo in passato. La seconda misura consisterebbe nel dichiarare colpevole di pratiche finanziarie ingannevoli la Banca Centrale iraniana, ai sensi del Patrioct Act. Nessun paese straniero, se volesse mantenere la propria reputazione, investirebbe in una banca colpevole di riciclaggio. Da un punto di vista immediatamente operativo la Casa Bianca dovrebbe sostenere i gruppi appartenenti alla società civile, i contestatori del sistema, con finanziamenti reali, senza alcun tipo di cautela. E quindi fomentare attivamente le proteste come è stato già fatto in Georgia e Ucraina, perché la rivolta possa veramente partire dal basso.
A questo livello occorrerà coinvolgere anche i lavoratori e quindi sostenere direttamente il neonato movimento sindacale della Repubblica Islamica. Infine, bisogna colpire il leggendario Corpo delle Guardie della Rivoluzione, i fedelissimi pretoriani del governo. Incoraggiarli alla defezione vorrebbe dire spezzare le gambe alla teocrazia, amputando il braccio armato della repressione governativa. Prima, però, è necessario che iraniani possano comunicare di nuovo e aprirsi al mondo attraverso la tecnologia negata dal regime. Sarebbe opportuno distribuire telefoni satellitari, tagliare i ponti di comunicazione delle forze di sicurezza, coinvolgere gli iraniani, rivolgendosi a loro non solo due volte all’anno, come fa Obama, ma più spesso con messaggi dedicati, e finanziare media in lingua persiana anche in America.
Rubin parla di un “approccio multilaterale” che risparmierebbe parecchie vite umane e potrebbe trasformare una potenza populista e in presa al suo delirio di onnipotenza, trasformandola in uno stato moderato e forse più democratico. Perché ormai sono gli iraniani i più arrabbiati con il loro Paese, come dicono i sondaggi: più del nucleare gli interessa poter viaggiare in aereo per attraversare un paese grande cinque volte e mezzo l’Italia, gli interessa poter comunicare senza controlli orwelliani, gli interessa ricevere ogni mese il proprio salario, senza le “ritenute” del governo.