Il caso E. coli dimostra che il nostro rapporto con il cibo è irrazionale

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Il caso E. coli dimostra che il nostro rapporto con il cibo è irrazionale

20 Giugno 2011

Quando si tratta di cibo, da consumatori, siamo stranamente suscettibili a due estremi di comportamento: una fiducia pressoché cieca che ciò che mangiamo è buono, sano e sicuro e un panico altrettanto cieco quando improvvisamente qualcosa non va come dovrebbe. Girando per le luminose e asettiche corsie di un moderno supermercato non ci passa per la mente neppure per un attimo che ciò che gettiamo distrattamente nel carrello della spesa possa essere velenoso o infetto. Crediamo come al vangelo alle date di scadenza, alle etichette, ai marchi bio o OGM free, alla perfetta conservazione dei surgelati, all’igienicità delle preparazioni. Al punto che, se una busta di insalata ci dice che è già lavata e pronta da condire, siamo ben felici di dargli credito. Allo stesso tempo se un contadino vietnamita si ammala per un pollo con l’influenza o un pastore messicano muore mangiando maiale infetto o ci dicono che il cetriolo spagnolo fa male, ecco che il mercato mondiale dei polli, dei maiali o dei cetrioli crolla alla velocità della luce e sulle nostre tavole quei prodotti spariscono come non fossero mai esistiti.

In realtà i due fenomeni sono più correlati di quanto appaia. Nel mondo occidentale il cibo è una festa di colori, un’esplosione di scelte, un mondo senza limiti. Possiamo avere sulle nostre tavole ogni cosa in qualsiasi momento: frutta e verdure che solo 20 o 30 anni fa erano legate a rigidi cicli stagionali ora sono disponibili tutto l’anno; prodotti che si potevano assaggiare solo durante viaggi esotici in capo al mondo ora sono in vendita al negozio dell’angolo; le proteine animali che erano un lusso in molti paesi e in tempi ancora impressi nella memoria ora sovrabbondano al punto da divenire un problema per salute. Tutto questo è il frutto di una trasformazione radicale nella catena alimentare umana prodottasi in un lasso di tempo incredibilmente breve. L’industrializzazione delle culture e dell’allevamento, la globalizzazione dei mercati, l’uniformazione degli stili alimentari e dei gusti ha cambiato completamente il sistema di produzione e distribuzione del cibo.

Il mito salutista dei prodotti a Km Zero che si va rapidamente affermando mostra soltanto l’altra faccia di una realtà nella quale è sempre più difficile sapere l’origine dei prodotti che mangiamo, ricostruire la serie sempre più lunga e complessa di passaggi che portano qualcosa raccolta dalla terra, pescata nel mare o allevata nei campi fino al nostro piatto. L’iper-regolazione nazionale e multinazionale che dovrebbe sorvegliare qualità e tracciabilità dei prodotti è un grande mammuth burocratico che spesso soccombe davanti alla pressione delle grandi aziende alimentari che devono produrre sempre più e costi sempre più bassi. Alla fine ci fidiamo di ciò che mangiamo perché non sappiano veramente cosa sia e spesso non vogliamo neppure saperlo.

Il caso della diffusione del nuovo ceppo di E.coli in Germania, che in pochi giorni ha colpito più di 2000 persone e ne ha uccise 29 al momento in cui scriviamo,è emblematica. L’evolutissima Germania ha impiegato venti giorni per attribuire la causa dell’epidemia ai germogli di soia e ancora non è stata in grado di capire l’origine della contaminazione. In quale momento della raccolta, conservazione, imballaggio, distribuzione, conservazione, i germogli di soia sono stati infettati del batterio non è stato ancora chiarito. Nel frattempo gli agricoltori di tutta Europa sono in difficoltà a causa del crollo delle vendite di ogni genere di verdura fresca, la Ue non è in grado di quantificare il danno e tanto meno di trovare le risorse necessarie per rifondere le aziende coinvolte. Il batterio ha persino messo a rischio le relazioni internazionali dopo che la Russia ha unilateralmente bloccato ogni importazione di verdura dall’Europa.

Qualcuno sulla rete ha ironizzato che si trattava del trionfo di McDonald e Kentucky Fried Chicken: dopo anni di prediche su quanto facesse bene mangiare vegetali piuttosto che ingozzarsi di proteine animali nei fast food ecco che all’improvviso il Big Mac e le crocchette di pollo si prendevano la loro rivincita. Le cose però non stanno così. Il sospetto è che l’intera catena alimentare sia compromessa proprio in nome della massima efficienza.

La giornalista scientifica di Scientific American, Christine Gorman, ha pubblicato on line un pezzo, con il titolo “Perché questa epidemia di E.coli mi preoccupa”, dove in un passaggio si diceva tra l’altro: “Da dove proviene questo raro ceppo di EHEC 0104:H4? Non mi riferisco a quale Paese sia legata la sua origine, ma piuttosto a come esso si è sviluppato. Considerando con quale velocità e capacità d’espansione l’epidemia ha avuto inizio, mi interessa particolarmente sapere se vi sia coinvolta qualche particolare tecnica industriale agricola – come lo spandiletame liquido”. L’articolo avanza dunque il sospetto che i vegetali incriminati fossero stati sottoposti ad una pratica piuttosto diffusa nelle coltivazioni industriali che è lo spandiletame liquido. Questo farebbe risalire l’origine della epidemia alla contaminazione tra prodotti animali (feci) e vegetali. È noto che negli allevamenti intensivi dove centinaia di migliaia di animali vengono tenuti in condizioni insalubri, lo sviluppo, la mutazione e il trasferimento di germi patogeni è sempre più diffuso. Se i sottoprodotti di questi allevamenti vengono utilizzati come concimi, il cerchio della contaminazione si chiude.

L’altro elemento di questo particolare batterio che spaventava la Gorman era che si fosse rivelato resistente a ben 14 tipi di antibiotici. L’unico tipo che fortunatamente era risultato efficace è il gruppo dei carbapenemi, anche noti come farmaci di ultima risorsa sia per il pericolo degli effetti collaterali sia perché l’utilizzo viene rigorosamente limitato per evitare l’insorgere di resistenza anche a questi particolari antibiotici. “Mi vengono i brividi a pensare cosa potrebbe accadere se EHEC 0104:H4 colpisse i gene che conferiscono resistenza ai carbapenemi, che sono farmaci di ultima istanza per i batteri Gram-negativi come E.coli”, concludeva la Gorman.

La preoccupazione deriva dal fatto che gli epidemiologi sono già incorsi in un ceppo di E.Coli resistente ai carbapenemi e conoscono molto bene la capacità di selettiva di questi batteri nel trasferire i geni della resistenza ad altri ceppi. Fece scalpore uno studi apparso su Lancet dell’agosto 2010 dove si raccontava di questa scoperta e delle sue conseguenze: “Abbiamo recentemente segnalato un nuovo tipo di gene resistente ai carbapenemi, denominato blaNDM-1.22. Un paziente, rimpatriato in Svezia dopo essere stato ricoverato in un ospedale a Nuova Delhi, in India, era stato contagiato da K pneumoniae e Escherichia coli dotati del gene blaNDM-1 su plasmidi di varie dimensioni, che si erano trasferiti facilmente tra ceppi batterici in vitro”, scrivevano gli autori dello studio, per poi concludere con rassegnata preoccupazione: “Microbiologi clinici concordano sempre più sul fatto che i batteri Gram-negativi multiresistenti ai farmaci (come E.Coli) presentano i rischi maggiori per la salute pubblica. Non solo l’incremento di resistenza dei batteri Gram-negativi è più veloce che nei batteri Gram-positivi, ma c’è inoltre un minor numero di antibiotici nuovi e di sviluppo attivi contro i batteri Gram-negativi, mentre i programmi di sviluppo dei farmaci appaiono insufficienti a coprire il fabbisogno terapeutico nell’arco di 10-20 anni”. Questo vuol dire che the la guerra tra agenti patogeni e farmaci, cominciata con la scoperta della penicillina nel 1929, potrebbe volgere bruscamente a favore dei cattivi e lasciarci privi di difese per molto tempo.

Anche in questo caso è il cibo ad essere sotto accusa. Il punto di partenza della resistenza agli antibiotici è ancora un volta in quello che mangiamo. Lo ha ampiamente documentato Jonathan Safran Foer nel suo libro, “Eating animals” (edito in Italia con il titolo “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali”): “Negli Usa Negli Usa gli esseri umani assumono ogni anno circa 3 milioni di libbre di antibiotici (poco meno di 1.500 tonnellate, NdA), ma ben 17,8 milioni di libbre (poco più di 8 mila tonnellate, NdA) vengono somministrati al bestiame. Ma l’Union of Concerned Scientist (l’Unione degli scienziati responsabili, NdA) ha dimostrato che l’industria sottostima l’uso di antibiotici di almeno il 24,6%. L’Usc ha calcolato che 24,6 milioni di libbre di antibiotici (oltre 10 mila tonnellate, NdA) sono stati dati a galline, maiali e altri animali d’allevamento, contando solamente gli usi non terapeutici”. È paradossale che, per quanto si sia divenuti attenti a non somministrare antibiotici alla prima febbriciattola, la fatica sia resa vana dall’uso massiccio di antibiotici nelle fattorie industriali.

Gli effetti li spiega un recente editoriale di Scientific American: “In molti Paesi, gli allevatori utilizzano gli antibiotici in due modi prevalenti: 1- a dosaggio pieno per curare gli animali che sono malati e 2- a piccolo dosi per l’ingrasso del bestiame o per prevenire le malattie veterinarie. Sebbene anche l’uso corretto degli antibiotici può inavvertitamente contribuire alla diffusione di batteri resistenti ai farmaci, l’abitudine di utilizzare una dose bassa o subterapeutica è una formula disastrosa: il trattamento fornisce sostanze antibiotiche quel tanto che basta per uccidere solo una parte dei batteri. I germi che sopravvivono sono tipicamente quelli che poi possono dare vita alle mutazioni genetiche che permettono la resistenza agli antibiotici. Successivamente, si possono riprodurre e scambiare geni con altri microbe resistenti. Poiché i batteri si possono trovare praticamente ovunque, è possibile che i ceppi resistenti presenti negli animali possano proliferare anche all’interno dell’organismo umano. Non si poteva progettare un sistema migliore per garantire la diffusione della resistenza agli antibiotici”.

Non è certo che i germogli di soia incriminati dell’epidemia che ha colpito la Germania siano stati concimati con letame liquido proveniente da animali che avevano sviluppato particolari resistenze e mutazioni e forse non lo si saprà mai. È il paradosso dell’abbondanza a poco prezzo: la produzione del cibo si automatizza, le catene di distribuzione si allungano, i prodotti vengono trattati per allungarne la vita sugli scaffali, le quantità coinvolte sono enormi, così ad ogni passaggio i rischi si moltiplicano e la loro rintracciabilità diviene più difficile.

Eppure continuiamo a comprare con cieca fiducia tutto quello che ci piace e ad essere terrorizzati appena ci dicono che non è così buono come sembra. Governi, istituzioni sanitarie, organismi di controllo hanno tutti scelto di convivere con il problema. Il nostro rapporto con il cibo è atavico e irrazionale, sfugge a considerazioni sia morali che di buon senso. È anche la conclusione del libro di Foer: “Il cibo non è razionale. Il cibo è cultura, costume e identità. Per alcuni tale irrazionalità porta a una sorta di rassegnazione. Le scelte alimentari sono collegate a scelte di moda o di stili di vita: esse non rispondono ai criteri secondo cui dovremmo vivere”.

(Tratto da Longitude)