Il caso Marino e la resa dei conti nel Pd

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Il caso Marino e la resa dei conti nel Pd

27 Ottobre 2015

Ignazio Marino reclama l’onore delle armi, ossia un riconoscimento che il Partito democratico dovrebbe concedergli in virtù del lavoro svolto nei due anni di governo della città. In caso contrario, il chirurgo «marziano» sarebbe pronto a tornare sindaco con pieni poteri, nella convinzione che la soluzione del «rebus Roma» necessiti di un chiarimento politico da tenersi sotto la luce dei riflettori dell’aula Giulio Cesare.

 

Senza entrare nel merito dei provvedimenti e dell’operato complessivo dell’Amministrazione comunale, tematiche cui l’Occidentale ha già dedicato spazio e approfondimenti, stilando un bilancio che definire disastroso sarebbe un eufemismo, la tragicommedia che va in scena da settimane all’ombra dei Fori Imperiali offre lo spunto per un’ulteriore riflessione sul rapporto tra il primo cittadino dimissionario (forse) e il Pd, una questione che rimanda, in termini più generali, al discorso sullo stato di salute del partito renziano, esaminato attraverso una lente particolare: la capacità di incidere sulle dinamiche territoriali.

 

Si parta da una semplice constatazione: la resistenza a oltranza di Marino ha una logica, dettata non solo dal naturale istinto di sopravvivenza politica. La defenestrazione del sindaco dovrà essere addebitata non tanto all’incompetenza amministrativa e all’incapacità gestionale di cui ha dato prova, quanto piuttosto alla resa dei conti interna al Pd, alle manovre di potere e alle scaramucce che hanno accompagnato sin dagli esordi l’ascesa del "rottamatore" fiorentino.

 

Il gioco sta riuscendo alla perfezione, e manda in tilt un partito schizofrenico (o parte di esso) che ha vissuto l’incoronazione di Marino alle primarie con sofferenza se non con autentico fastidio, e che in questi due anni l’ha prima difeso affiancandogli un big nazionale come Matteo Orfini (che ci ha rimesso le penne), poi l’ha commissariato affidando ruoli e competenze fondamentali ad assessori di peso o a tecnici esterni, infine l’ha scaricato senza però riuscire a delineare un percorso per fargli togliere il disturbo senza troppo disturbare il manovratore, cioè il partito. Dimissioni in massa dei consiglieri comunali o mozione di sfiducia da sottoscrivere, colmo dei colmi, con la destra e con i pentastellati ?

 

La deflagrazione democratica si riflette nella presenza di un pezzo della sinistra Pd in piazza a sostegno dell’allegro chirurgo che fa il verso a Che Guevara, e nelle parole che Stefano Esposito, assessore dimissionario ai Trasporti del comune di Roma, ha pronunciato ieri sera a Otto e mezzo, un pensiero sintetizzabile così: ho dovuto sobbarcarmi l’ingrato compito di entrare in giunta perché non c’era nessun altro matto disposto a metterci la faccia.

 

Il sindaco dimissionario ha dunque gioco facile a profittare delle divisioni interne a Largo del Nazareno per alzare il prezzo di una eventuale resa, per evitare di uscire, come amano ripetere i suoi collaboratori, con gli schizzi di fango sulla giacca. Peccato che nel frattempo gli schizzi di fango stiano sporcando ogni angolo della città, abbandonata a se stessa, consegnata all’improvvisazione e alla figuraccia planetaria a 40 giorni dall’apertura della Porta Santa che darà inizio al Giubileo.

 

A questo punto, la domanda sorge spontanea: Matteo Renzi prenderà prima o poi in mano il dossier Marino? Oppure (secondo quanto riferiscono i retroscenisti a lui vicini) preferirà non infilarsi «in certe beghe» per paura di dover «mercanteggiare»? Ma cos’altro, se non l’intervento del segretario del Partito democratico, è necessario per «sgomberare Roma dalle macerie», parafrasando il titolo di un recente editoriale pubblicato sull’«Osservatore Romano»?

 

È in questo coacervo di incapacità-indisponibilità ad assumere decisioni e a farsi carico di responsabilità che il «caso Roma» riflette i suoi effetti negativi sul processo di affermazione e consolidamento della leadership renziana, rimasto a ben vedere incompiuto.

 

Il partito erede della tradizione comunista è oggi lacerato da divisioni e da logiche correntizie che ostruiscono il terreno dell’elaborazione politica, culturale, programmatica. Temi e slogan vengono fabbricati nella war room di palazzo Chigi, mentre il Nazareno è presidiato da un manipolo di fedelissimi incaricati di fare da megafono alle decisioni calate dall’alto. È come se leader e partito fossero due corpi distinti, separati l’un dall’altro. Renzi ha impresso un’accelerazione al circuito decisionale, muovendosi con piglio decisionista, ma non governa il suo partito, che gli è ostile. E ci sarà un motivo se il premier-segretario sembra sul punto di rinunciare alle tanto amate primarie nella scelta dei candidati per la carica di sindaco delle città che andranno al voto in primavera. Decisione che, se confermata, sarà foriera di nuove fibrillazioni.

 

Anche per questo, il «caso Marino» è oggi la fotografia nitida dello sfilacciamento dell’universo democratico e, al contempo, rappresenta solo un tassello della crisi del Pd, che potrebbe esaurirsi nella rottamazione, senza riuscire a evolvere nel “cambiare verso”.