Incluso negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, nella lista degli ‘indesiderati’, Tariq Ramadan, considerato dal Time Magazine uno dei cento intellettuali più influenti del mondo, nel 2005, all’indomani degli attentati di Londra, per volere di Tony Blair, è entrato nella commissione incaricata . In un lungo articolo-saggio sui , pubblicato sul ‘Corriere della Sera’ del 4 settembre, Pierluigi Battista riflette sul <Caso Ramadan> e sulla discussione sorta tra due prestigiosi intellettuali, Paul Berman e Ian Buruma in merito alla credibilità del ‘mediatore’islamico e all’utilità di aprire con lui e con la sua gente un dialogo che non sia una resa preventiva., ha sostenuto Berman. Giustamente Battista, che da tempo ormai si è dedicato all’analisi storica e filosofica (in senso lato) dell’intellighentzia del nostro tempo, lascia trapelare che Ramadan è una figura tutt’altro che limpida. E non stentiamo a crederlo giacché in Italia di Ramadan in sedicesimo ce ne sono molti. Fanno dichiarazioni antisemite e poi, dinanzi alle reazioni indignate dell’opinione pubblica, le convertono in ‘antisioniste’; si avvalgono dell’armamentario democratico e liberale per rivendicare il diritto degli islamici non solo a professare la loro religione ma a veder rispettati i loro costumi, le loro tradizioni, i loro codici morali ma diventano ambigui dinanzi alla richiesta di ‘reciprocità’ nei loro paesi di origine; giocano sul tavolo del razionalismo quando si tratta dell’etica del riconoscimento e su quello dello storicismo (il falso storicismo giustificazionista, beninteso) quando è in gioco la rivendicazione dell’identità—della loro identità; condannano la violenza e il terrorismo ma invitano, come i vecchi fascisti e i vecchi comunisti, a tener conto delle cause ‘complesse’ che l’hanno attivata.
Che i politici debbano apprendere l’arte della pazienza e ‘prender sul serio’ chi sventola la bandiera bianca mi pare scontato. Specie in una democrazia liberale, l’unica alternativa al bargaining, alla contrattazione permanente dei diritti e dei doveri dei cittadini e dei governi, è la repressione (carcere, espulsione, limitazione di accessi etc.) e, pertanto, se qualcuno parla in nome della sua etnia e di dichiara disposto a collaborare con le autorità—sia pure per condizionare il ‘sistema’ dal di dentro—non si può certo sbattergli la porta in faccia.
E tuttavia riconoscere, come fa Ian Buruma, che Ramadan non deve significare la rinuncia dell’osservatore, dello scienziato sociale, del columnist al suo ruolo e al suo ethos specifico. Si può anche trattare con Stalin ma questo non comporta—come accadde a tanti chierici negli anni attorno alla seconda guerra mondiale—stendere un velo pietoso sul regime totalitario da lui messo in piedi. In fondo, il senso più profondo della contrapposizione platonica tra Achille e Odisseo–una contrapposizione sovversiva dell’antica morale omerica che esaltava il primo per la sua irriflessa generosità e il suo istintivo eroismo e demonizzava il secondo per la sua perfidia servita da una straordinaria intelligenza—sta proprio nel fatto che alla cecità dei (pretesi) ‘buoni sentimenti’ è preferibile una lucida, pur se spregiudicata, visione delle cose. Può esserci salvezza per chi sa che cos’è il ‘male’ e continua a praticarlo cinicamente, non ce n’è per chi, colpito da metastasi ideologiche, scambia Lager e Gulag per ritiri spirituali a beneficio di oppositori politici incapaci di capire la fortuna, ad essi riservata dal destino, di vivere nell’era del nazismo o del comunismo.
Ai portavoce islamici non bisogna concedere l’entrata nei territori della conoscenza e dell’informazione, così come ieri un democratico liberale non avrebbe perso il suo tempo a discutere col Dr. Goebbels ,con Zdanov o con quanti, dall’altra parte della barricata, invitavano a ‘contestualizzare’, a non ‘prendere alla lettera le minacce’, a comprendere che certe espressioni forti erano ‘a uso interno’ e servivano solo a ‘tenere coeso e unito il gruppo’ etc. etc.
E tuttavia quando Battista scrive che nasce la domanda:< ma è possibile liberarsi dalle ‘radici’, fuoruscire dalla propria comunità di destino, come si esce da una rappresentazione teatrale che non piace più? Di Wolfgang Goethe scriveva Thomas Mann che mostrava alla Germania il volto civile dell’Europa e all’Europa quello inconfondibile della Germania. I veri costruttori del dialogo tra i popoli svolgono proprio questo ruolo: rivendicano con orgoglio, o con rassegnazione, la propria appartenenza, amano profondamente la propria gente ma come si fanno un dovere di stigmatizzarne malefatte, ritardi culturali e superstizioni religiose così non rinunciano a denunciare le incomprensioni e i torti commessi dalle altre nazioni nei suoi confronti.
, chiede Battista, .
In realtà, nel , davanti ai membri più pensosi e più responsabili di una ‘tribù’, stanno due strade, entrambe difficili da percorrere e segnate da conflitti e dilacerazioni morali: la prima è quella di Giovanni Gentile, che non condivide aspetti ripugnanti del regime fascista, ma va a Salò ritenendo che lì si sia rifugiata la sventurata patria e che condividerne il sicuro tragico destino sia obbedire alla propria coscienza; la seconda è quella di Gaetano Salvemini che alla patria fascista vuol contrapporre, all’estero, con i fuorusciti democratici, una patria più vera, rimasta fedele alla propria storia, al Risorgimento, a Mazzini: è la strada scelta da ultimo da Federico Chabod non senza passare attraverso i tormenti di un’anima divisa tra la speranza della riconquistata libertà e l’angoscia di una guerra perduta, destinata a segnare la fine dello stato nazionale. Sono due strade opposte–e un liberale sa bene quale scegliere—ma entrambe sotto il segno di un’umanità capace di rinunciare al proprio ‘particulare’ per servire divinità esigenti.
Ci sono al mondo ‘pontieri’ e ‘pontieri’. Degni di rispetto non sono quelli che ‘tengono i piedi in due scarpe’, godendosi sia i vantaggi della nomina, da parte dei governi occidentali, a ‘interlocutori ufficiali’ e gettonati sia la popolarità acquisita in seno alla propria gente per averne difeso con le unghie e coi denti le ragioni, bensì gli altri, odiati dai loro confratelli per averne messo sotto accusa violenze e atavismi e riguardati pur sempre con sospetto, in quanto ‘diversi’, nel nuovo mondo con cui debbono confrontarsi.
Nel caso di Tariq Ramadan, la domanda decisiva da porre non è ma . In parole povere, e per non dimenticare i moniti di Magdi Allam, quali discorsi tiene nelle moschee?
Che si abbia bisogno del petrolio di Achmadinejad, e che pertanto si debba cercare un qualche accordo col suo governo (tenuto conto anche del volume consistente dell’esportazione italiana in Iran) è scontato. Ma perché dovremmo essere tenuti anche ad accogliere i suoi apostoli e i suoi intellettuali militanti, in Europa sempre più numerosi e aggressivi? La laicità del pensiero non si baratta.