Il Cav. rilanci il Pdl con un progetto che vada oltre il manifesto elettorale
14 Ottobre 2010
Lo “spirito del ‘94” è tornato ad aleggiare in questi giorni convulsi, inconcludenti, defatiganti. E dopo le intenzioni manifestate da Berlusconi di rifondare il Pdl a qualcuno è venuto in mente un tuffo nel passato, tanto per rinfrescare le “stanche membra” dopo le scalate delle vette del politicismo. No, non c’entra niente la nostalgia. Anche se non sarebbe male, di tanto in tanto, re-innamorarsi delle radici.
C’entra piuttosto la passione civile da ritrovare attraversando un deserto punteggiato da rovine, come la strada impietosamente descritta da Cormac McCarty. Il nichilismo politico è negato da un personale burocratico che mostra la corda. Eppure lo si deve affrontare per come merita, guardandolo in faccia senza farsi condizionare, per quanto difficile possa essere, dagli agguati quotidiani di chi si propone di logorare partiti, uomini, strategie e non si accorge (ma forse semplicemente non lo ammette) di logorare così facendo l’Italia.
E ci domandiamo, amaramente, dov’è finito quel “sentimento della nazione” che tanta parte ha avuto nella vita e nella storia di chi oggi, mutando avviso, non si rende conto di travolgere perfino quel pallido simulacro di “bene comune” che, come può, una maggioranza che sembrava un’armata vittoriosa solo due anni fa, cerca di difendere a fatica.
Ci vuole altro che un ribaltone del e nel partito, come quello annunciato da Berlusconi, per far rimettere le lancette dell’orologio al punto in cui il treno del Pdl ha cominciato a deragliare. Encomiabile che il Cavaliere si sia convinto, dopo un anno e mezzo dalla fondazione, che il partito gli ha creato più problemi di quanti ne immaginava, ed abbia deciso di metterci personalmente le mani. Ma non può fare tutto da solo. E soprattutto deve convenire sul fatto che deve re-inventarlo come un vero e proprio laboratorio di idee.
Se l’intento è quello di promuovere una sorta di rivoluzione interna sia per riassorbire il malcontento emergente che potrebbe andare ad ingrossare le file dei finiani, sia per rilanciarlo come soggetto autenticamente popolare, è inevitabile che assume anche le forme di una intelligente fucina di proposte, programmi, elaborazioni da lanciare oltre le contingenze e chiamare intellettuali, soprattutto giovani, a misurarsi con le tendenze che stanno trasformando il mondo. Un partito come centro di elaborazione culturale. Perché no. Lo sono sempre stati i partiti degni di questo nome e la stessa discesa in campo del Cavaliere venne accompagnata dall’appeal che la sua annunciata “rivoluzione” antipartitocratica ed anticomunista riscosse su numerosi intellettuali che non esitarono a seguirlo. Ne cito uno per tutti, per non fare torto a nessuno: Lucio Colletti.
Non si capisce per quale motivo gli intellettuali non dovrebbero essere recuperati ad un ruolo attivo pre-politico e politico insieme. E lavorare unitamente alle strutture del partito per ricostruirlo, dopo il primo incontestabile fallimento dovuto a molte ragioni che sarebbe il caso di approfondire se si vuole con serietà agire al fine di rilanciare nel momento in cui tutti vedono il centrodestra svanire.
Ma il Cavaliere teme anche il deterioramento strutturale del Pdl e, dunque, della sua capacità attrattiva. Il ché gli impone di pensare ad una ristrutturazione dal basso reclutando la classe dirigente attraverso meccanismi di partecipazione localistici e di mantenere i quadri intermedi legati all’elettorato, ma rispondenti dal vertice, cioè a lui stesso. Un mix, dunque, che dovrebbe consentirgli di avvicinare il partito alla gente e, nello stesso tempo, di governarlo attraverso persone fidate, ma non estranee al territorio.
Guardando a ciò che accade in periferia, dove un certo “rassismo” sta bruciando passioni ed entusiasmi in una fornace nella quale interessi personali e di gruppi ingenerano conflitti che appaiono sempre più irredimibili, Berlusconi si è deciso a ristrutturare il partito secondo un modello movimentista, ma dislocato secondo le esigenze elettorali che lo fanno propendere per l’organizzazione capillare rigettando, di fatto, quello più estemporaneo che rifletteva l’immagine e la volontà del leader, attraverso mediazioni non sempre qualificate. Perciò, spazio alla costituzione di comitati snelli in ogni sezione elettorale, ma anche alla rivitalizzazione di circoli, club o sezioni dove promuovere l’incontro con i cittadini, attivare la discussione politica, convogliare le opinioni, sviluppare un ceto in grado di autodeterminarsi e dal quale far eleggere i coordinatori provinciali, mentre per quelli regionali si prevede una semplice indicazione che dovrebbe essere poi ratificata dal coordinamento nazionale.
E’ un abbozzo di partito che non dovrebbe lasciare in ombra la selezione secondo criteri meritocratici di candidati a tutti i livelli e la promozione di innovative forme di aggregazione utilizzando gli strumenti più moderni della comunicazione di massa. Che il futuro della democrazia passi attraverso il potenziamento della “democrazia elettronica” è un fatto: in molti Paesi si vota già da casa ed i comizi si tengono attraverso il web. La partecipazione sta mutando forme per mantenere integri, paradossalmente, i contenuti. Non si capisce perché un partito politico nato sulla premessa di fondere modernità e tradizione in una sintesi che esaltasse l’intervento popolare servendosi di strumenti nuovi atti a raggiungere chiunque in ogni dove, non dovrebbe ripensarsi in questa prospettiva.
Ma non basta. Probabilmente Berlusconi si è anche reso conto che la fusione per incorporazione funziona nelle società commerciali, ma non in quelle particolarissime associazioni di sentimenti e di idee che sono i movimenti politici. In questi intervengono elementi che non sono giuridicamente classificabili e sui quali nessun notaio può apporre il proprio sigillo. Il “fusionismo” a cui bisogna rifarsi è piuttosto quello che mise in campo nel 1964 Barry Goldwater quando comprese, dopo la disastrosa corsa per la Casa Bianca, che lo vide soccombere contro Lyndon B. Johnson, soltanto rendendo compatibili le varie anime conservatrici si poteva dare vita ad un grande partito repubblicano: la storia gli ha dato ragione.
Berlusconi dovrebbe ricostruire il Pdl orchestrando una vera sinfonia di anime politico-culturali, un po’ come fece quando fondò Forza Italia, cercando di farle convivere in un vasto progetto che non si esaurisca in un programma elettorale, ma dia luogo ad una autentica speranza di rinnovamento nazionale tanto nel campo delle istituzioni, quanto nell’economia, nel welfare, nell’istruzione, nella cultura, vale a dire i pilastri di una società piuttosto malconci. E’ un problema che coinvolge tutte le democrazie occidentali. Se n’è reso conto Cameron rilanciando un conservatorismo moderno nel congresso di Birmingham; ne è consapevole Sarkozy che sta attuando una politica di preservazione dell’identità francese, pur sapendo di dover affrontare molte critiche ed incomprensioni.
Se il cambio di passo di Berlusconi prelude ad una “rivoluzione culturale” unita ad un’inevitabile “rivoluzione strutturale”, è possibile che le bolle di dissenso e di delusione si sgonfino in tempi ragionevoli. E comunque, la sottrazione di un mondo alla depressione in agguato sarebbe già di per sé un risultato apprezzabile. Con un’avvertenza: in politica, come lo stesso Cavaliere fece intendere nel 1994, è necessario includere per vincere. Ma anche l’inclusione deve prevedere un piano sul quale far convergere energie ed intelligenze, in maniera convinta e non acritica o opportunistica. Proprio ciò che è mancato nel cammino di costruzione del Pdl. Almeno ad avviso del Maldestro.