Il Cav. si gioca molto su cosa dirà al Paese. Il Pdl litiga sui ministeri al Nord

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Il Cav. si gioca molto su cosa dirà al Paese. Il Pdl litiga sui ministeri al Nord

20 Giugno 2011

Fino a che punto l’agenda di Bossi non si trasformerà in ultimatum al Cav.? Quali e quante richieste padane sono ricevibili dal Pdl? Da Pontida alla verifica parlamentare. Ma in che modo la maggioranza arriva alla prova dell’Aula? Quali effetti la nuova polemica Pdl-Lega sul trasferimento dei ministeri al Nord potrà avere a Palazzo Madama e Montecitorio? Interrogativi alla vigilia di una settimana strategica per  la legislatura che si apre oggi con la fiducia sul decreto sviluppo (creatura tremontiana) e in contemporanea l’intervento del premier al Senato.

Sul ‘sacro prato’ Bossi ha rispolverato la versione ‘Lega di lotta’ senza rinnegare quella di governo. Al popolo padano, deluso e disorientato dopo la sberla elettorale, doveva dare risposte ma lo ha fatto confermando l’alleanza con Berlusconi e il prosieguo della legislatura come unica alternativa possibile, scegliendo l’unico strumento che tenesse insieme le due cose: un elenco di punti e un tempo per realizzarli. Un modo per rimettersi in connessione con la base e rilanciare l’azione di governo su temi ‘sensibili’ per il corpaccione leghista rispetto ai quali Bossi ha perso voti e smalto (politico). Al netto dei simbolismi di cornice, dei toni perentori e pseudo-ultimativi,  della drammatizzazione propagandistica, il leader del Carroccio ha toccato le corde dei militanti a Pontida senza spezzare quelle con Berlusconi a Roma. Un discorso di tenuta, più che da ultimi giorni di Pompei perché far saltare il banco adesso significherebbe da un lato assumersi la responsabilità di portare il paese al voto in un quadro economico ancora instabile per gli effetti della crisi, dall’altro mettere in conto una debàcle elettorale rischiando di portare acqua al mulino di Bersani, Vendola, Casini e Di Pietro e poi restare a mani asciutte.

Il gioco vale la candela? E proprio ora che il federalismo fiscale è in dirittura d’arrivo e rinunciando d’amblè al Senato federale? A sentire i commenti a mezza bocca di alcuni deputati leghisti staccare la spina adesso sarebbe più o meno come prendere la katana (la mitica spada dei samurai) e fare harakiri. “Meglio riuscire a condizionare dall’interno la maggioranza, facendo passare le nostre richieste e portando a casa il massimo del risultato possibile. Poi vedremo tra sei mesi…”. 

Già, sei mesi per impostare la riforma fiscale e quella del Senato federale, rivedere il patto di stabilità, ritirare il contingente italiano dalla Libia e pure gli altri dalle missioni all’estero, trasferire quattro ministeri al Nord. Anche qui occorre discernere tra propaganda e realtà. Tra questioni marginali e questioni dirimenti. E qui sta al Pdl compiere lo sforzo maggiore aprendo con l’alleato un confronto aperto ma fermo sulle cose che si possono o non si possono fare. In quest’ottica la querelle sui ministeri al Nord non può essere la questione centrale rispetto al rilancio dell’azione di governo. Per quanto la Lega la cavalchi e ci giochi anche demagogicamente sventolando il vessillo federalista, sa bene che un conto è incassare uffici di rappresentanza magari con compiti più o meno operativi, altro è pretendere di trapiantare a Monza interi dicasteri con costi che le casse dello Stato in questo momento non potrebbero sostenere.

Per questo l’iniziativa capitanata da Alemanno e Polverini scesi in piazza a raccogliere le firme per una petizione popolare contro quella della Lega e – come annunciato dal sindaco di Roma – sostenere un ordine del giorno o una mozione oggi alla Camera contestualmente al voto di fiducia sul decreto sviluppo, sembra alquanto estemporanea e sul piano politico piuttosto azzardata perché da un lato, insegue il Carroccio sullo stesso terreno, dall’altro apre un nuovo fronte di polemica dentro il partito e nei confronti dell’alleato. E’ come gettare benzina sul fuoco. Tutto l’opposto di ciò di cui in questa fase c’è bisogno.

Ed è ovvio che se oggi alcuni deputati romani pidiellini dovessero presentare un testo col quale si impegna il governo a ribadire che “gli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, e quindi il Governo con le sedi dei relativi ministeri, abbiano sede esclusiva a Roma, capitale della Repubblica” (prima bozza) o ad evitare  “inutili duplicazioni di strutture burocratiche in ambito locale, valutando in via meramente residuale la delocalizzazione di particolari strutture amministrative solo quando motivate esigenze operative e funzionali lo rendano utile e necessario, senza che ciò rechi ulteriori oneri alla finanza pubblica o ponga minimamente in discussione l’architettura del nostro sistema costituzionale” (seconda bozza),  il rischio reale è quello di alimentare un circuito di tensioni che potrebbero avere effetti anche sulla fiducia (magari con assenze ad hoc nei banchi del centrodestra senza tuttavia pregiudicare la tenuta della maggioranza). 

Il gioco vale la candela?  Il che non significa accettare i diktat di Pontida, né il ministro Maroni può liquidare la pratica Libia ribadendo che l’Italia deve uscire subito dal teatro di guerra (Napolitano, invece, ha ammonito a restare), bensì ragionare tenendo ferma la barra del governo. Per questo si lavora di cesello nel Pdl. Cicchitto e Gasparri hanno visto Alemanno e insieme ragionato per trovare una mediazione, una formula più soft che a questo punto potrebbe essere presentata a Montecitorio dallo stesso capogruppo Pdl per evitare che il partito si divida in Aula. I rumors segnalano che il punto d’equilibrio sul testo potrebbe essere la conferma dell’impegno a mantenere nella Capitale i ministeri pur concedendo aperture alla Lega sull’idea di creare uffici di rappresentanza sul territorio.  

Capitolo missioni all’estero. Tema sul quale, sembra possibile arrivare a una sintesi tra alleati. Se la Lega spinge per lo stop immediato all’intervento in Libia, Frattini risponde che il ritiro unilaterale è impossibile e comunque si tratta di una missione a tempo che si concluderà a settembre, data prima della quale “stiamo lavorando per arrivare a un cessate il fuoco”.  E sul Libano, ad esempio, un ragionamento non appare impraticabile.

Quanto alla riforma fiscale e alla revisione del patto di stabilità, la via non è in discesa ma anche qui sta alla responsabilità di chi governa – tanto il Pdl quanto la Lega – trovare la ‘quadra’ per coniugare rigore e crescita e riempire di contenuti la formula che Palazzo Chigi ha già indicato come obiettivo entro il termine della legislatura. Come? Remando tutti dalla stessa parte – Tremonti compreso che proprio ieri avrebbe aperto all’ipotesi di allentare i vincoli sul patto di stabilità per i comuni virtuosi – e facendo ciò che è possibile fare in un contesto come l’attuale e nel recinto delle regole dettate dall’Europa per tenersi alla larga dal rischio default (vedi Grecia), oltretutto con alle porte una manovra da 40 miliardi in tre anni che Bruxelles ci chiede. E magari farlo sapendolo comunicare bene al paese.  

Non c’è dubbio che in una situazione di fibrillazione l’incidente può essere sempre dietro l’angolo. Ma staccare la spina adesso non conviene a nessuno. Né a Bossi, tantomeno a Bersani e Casini. Molto dipenderà da cosa oggi e domani Berlusconi saprà dire al Paese