Il Cav. sta con Marchionne, Vendola con gli operai e il Pd ancora non si sa

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Il Cav. sta con Marchionne, Vendola con gli operai e il Pd ancora non si sa

12 Gennaio 2011

Mentre la nomenclatura democratica di D’Alema e Bersani, al grido di “né Fiat né Fiom”, tenta di capire come orientarsi in merito al referendum sul piano di sviluppo dello stabilimento Fiat Mirafiori, a sinistra spuntano i franchi-tiratori, pronti a fare lo “sgambetto” ai vertici del Pd per strappargli la tribuna politica. E il centrosinistra appare sempre più sull’orlo di una crisi di nervi.

Da una parte c’è “il rottamatore” Matteo Renzi che, facendo eco al governo, ha dichiarato di tifare per l’Ad del Lingotto Sergio Marchionne (“La Fiat tira fuori i soldi invece di chiederne e il Pd non si schiera? Io sto con chi investe”). Dall’altra Nichi Vendola, che ieri si è presentato allo stabilimento Fiat (come Berlinguer durante la vertenza del settembre 1980) convinto di ricevere il plauso degli operai. Il governatore della Puglia invece è stato accolto dagli spintoni dei sindacalisti della Fismic che gli hanno intimato di andarsene gridandogli dietro “il comunismo è finito!”.

Un’accoglienza che non si aspettava affatto il leader di Sel, tanto che, evidentemente imbarazzato, ha negato la contestazione, per poi lanciarsi in un duro attacco nei confronti del governo – che, a suo dire, “avrebbe dovuto svolgere il ruolo di arbitro tra le due squadre invece di scendere in campo a gamba tesa dalla parte di Marchionne” – e del Pd, accusato di non aver condiviso la sua battaglia scendendo in piazza per dire no al referendum.

Insomma, poteva essere l’occasione giusta per ritrovare l’unità e invece Mirafiori si è trasformata in una bega in più da risolvere per i vertici del Pd che, alla vigilia della direzione nazionale del partito che si terrà oggi presso la Sala conferenze della Sede nazionale a Roma. L’altro ieri infatti, l’ex segretario della Cisl Sergio D’Antoni (Pd) aveva difeso la decisione di Fim e Uilm di votare l’accordo per Mirafiori scatenando una lite col giovane “anti-Marchionne” e dalemiano Matteo Orfini, mettendo in luce la spaccatura interna al partito. Questo, mentre il dibattito politico s’incendiava con il duello tra Marchionne e la leader della Cgil Susanna Camusso, che accusava l’Ad di Fiat di insultare ogni giorno il Paese.

E mentre il centrosinistra era alle prese con le baruffe in casa propria, Fim, Uilm, Fismic e Ugl (le sigle sindacali che hanno sottoscritto l’accordo per il piano di rilancio della Fiat di Mirafiori) hanno convocato assemblee informative che si terranno oggi a partire dalle 10 per spiegare agli iscritti i termini dell’accordo in vista del referendum di stasera e venerdì. Lo hanno fatto, sostengono in una nota, a causa del clima “di non possibile svolgimento democratico delle assemblee retribuite per svolgere un confronto e un dibattito che aiuti i lavoratori stessi a capire l’accordo e a confrontarsi”.

Il clima è teso, perciò è difficile fare pronostici sui risultati del referendum. Proprio per questo ieri Berlusconi ha rotto il silenzio sullo scontro in atto tra Fiat e i sindacati radicali (Cgil e Fiom) contrari all’accordo e al nuovo contratto di lavoro. Dal vertice bilaterale di Berlino con la cancelliera tedesca Angela Merkel ha spiegato che se vincesse il "no" al referendum di Mirafiori, "è giusto che Fiat abbandoni l’Italia". “Noi – ha detto il premier – riteniamo positivo lo sviluppo della vicenda con la possibilità di un accordo tra azienda e forze sindacali nella direzione di una maggiore flessibilità dei rapporti e del lavoro".

Immediata la reazione dalla segreteria della Cgil con la Camusso di nuovo sul piede di guerra: "Non conosco nessun presidente del Consiglio che si augura che se ne vada il più grande gruppo industriale dal Paese. Se questa è la sua idea del Paese, è meglio che il premier se ne vada". Affermazioni alle quali Bersani non ha potuto che affiancarsi sostenendo che "è una vergogna incredibile sentire il presidente del Consiglio fare queste affermazioni".

Ma i pruriti del numero uno del Pd si sono fatti ancora più fastidiosi quando il centrista Pier Ferdinando Casini ha teso la mano al premier sostenendo che “Marchionne non è un santo, e sta facendo delle forzature evidenti, ma mi auguro che i lavoratori votino sì al referendum".

Insomma, mentre il leader democrat finisce in un ‘cul de sac’, cresce l’attesa in vista del referendum così come la tensione fra gli operai e la politica. Ma Marchionne con un’intervista al Financial Times rassicura tutti: “Fiat non intende andare da nessuna parte”. Il Lingotto, specifica, farebbe i bagagli "solo se l’Italia non volesse Fiat". Ma su questo, chiaramente, peserà il voto di domani.