Il centrodestra non può non trasformare il governo Monti in opportunità
14 Novembre 2011
Per discutere in modo proficuo la prospettiva di un governo tecnico bisogna, preliminarmente, sgombrare il campo da un equivoco che abbiamo visto affacciarsi nelle pieghe di qualche intervento. Occorre abbandonare l’idea che tale esecutivo, che non deriverebbe la propria legittimazione dalla volontà popolare, sarebbe una imposizione di non meglio precisati "poteri forti". Le cose non stanno così, la necessità di un esecutivo tecnico nasce dalla scarsa capacità decisionale di un governo debole. Che piaccia o meno, si deve riconoscere che in questi mesi l’esecutivo in carica aveva tutto il tempo per varare misure in grado di rassicurare i mercati e di svolgere con maggiore incisività una politica di risanamento finanziario (pareggio del bilancio, riforme strutturali, etc.). Questo non è avvenuto e realisticamente non è pensabile che potesse avvenire resistendo ancora, dato lo sfaldamento progressivo della maggioranza che si è registrato nelle scorse settimane. In sostanza è inutile recriminare sul fatto che l’Italia è ancora una predemocrazia nella quale il voto degli elettori non svolge la funzione essenziale di indirizzo politico. Il voto popolare è solo una delle condizioni necessarie per avere un governo stabile, ma se non ci sono i dovuti aggiustamenti costituzionali, resta una condizione largamente insufficiente. In sostanza, dopo un’orgia di chiacchiere sul federalismo ci accorgiamo che nulla (al di là delle periodiche e sacrosante lamentazioni di Berlusconi) è stato fatto per rafforzare le capacità decisionali e operative del governo.
Se guardiamo le cose sotto questo profilo il bilancio è davvero misero. Questa doveva essere una legislatura costituente ma, a distanza di oltre quaranta mesi dalle elezioni politiche della primavera del 2008, l’unica misura approvata che faccia un minimo passo in quella direzione è il ritocco alla legge elettorale per le elezioni europee, dove è stato introdotto un modesto sbarramento del quattro per cento. Poste queste premesse la richiesta di elezioni anticipate subito non era e non è una soluzione proponibile. Fare nuove elezioni significherebbe perdere ancora almeno altri tre mesi, cosa che, corse settimane, non ci possiamo assolutamente permettere.
In sostanza, è doveroso riconoscere che l’esecutivo tecnico deriva in buona parte dagli errori e dalle incertezze del governo di centro destra. A questo punto occorre far sì che esso sia un’occasione per interventi di risanamento finanziario, mettendo l’Italia al sicuro dalla crisi internazionale. D’altronde è un elemento positivo il fatto che a votare delle misure che nei palazzi romani (e ancor più nelle loro improbabili dépendances monzesi) si ritengono impopolari non sia una sola parte politica ma un governo in cui hanno piena responsabilità partiti che hanno un orientamento divergente (PdL e Pd anzitutto). Sarebbe un modo per affermare in modo concreto il comune riconoscimento di un interesse nazionale da difendere al di là delle visioni di parte; un precedente che migliorerebbe anche i rapporti futuri fra le forze politiche.
Semmai occorre avere serie garanzie (di durata temporale e di impegni programmatici), come è stato più volte ricordato anche sulle colonne di questo giornale, che il nuovo governo operi senza minare il bipolarismo, ma semmai rafforzandolo. In questo senso la prima cosa da fare è parteciparvi; e per farlo nelle condizioni migliori il PdL deve rimanere unito dimostrando di possedere una sostanziale comunità d’intenti.
C’è infine un ultimo elemento da considerare. Abbiamo sempre ritenuto che il bipolarismo, per offrire una prospettiva di sviluppo all’Italia, dovesse necessariamente evolvere verso il bipartitismo, restare a metà del guado non è auspicabile. Avendo questo obiettivo in mente e considerando anche che è pendente un referendum sulla legge elettorale occorre essere preparati anche a legiferare su questo argomento. Evitando controriforme e riaffermando la vocazione maggioritaria del PdL che, ricordiamolo, è la sua principale ragione d’essere.