Il centrodestra recupererà il suo elettorato solo quando farà cose di (centro)destra
29 Luglio 2011
Grande è la confusione sotto il cielo. Credevamo cha a governare fosse il centrodestra e che di centrodestra fosse – culturalmente e politicamente – il ceto parlamentare di maggioranza. Poi ci troviamo al cospetto di una manovra di correzione dei conti pubblici – con l’obiettivo (lodevolissimo!) di raggiungere il pareggio di bilancio e avviare la riduzione del mostruoso debito pubblico e relativo servizio d’interessi, che gravano oltre che sulla nostra su un numero indefinito di generazioni d’italiani a venire – che sembra ispirata dal manuale della “socializzazione fredda”.
Fredda, perché fortunatamente attuata senza il terrore di Stato, o almeno senza il terrore sanguinario: Equitalia, Agenzia delle Entrate e Polizia Tributaria non sono estranei ai peggiori incubi degl’italiani. Socializzazione, perché come “quella” tende – certo in modo meno radicale – all’espropriazione.
E non si tratta solo di espropriazione economica e patrimoniale, ma soprattutto della primogenitura, rispetto allo Stato, della persona, della famiglia, dei corpi sociali e dell’intera società. In questione, dunque, più che la finanza pubblica è un’idea della politica, che discende naturalmente da una concezione antropologica. E stupisce davvero che il centrodestra opti di fatto per una visione, che è troppo lontana dalle radici culturali che definiscono la sua collocazione politica e dalle aspettative del suo elettorato, per non indurre il sospetto che sia ormai infiltrato di cultura socialista o vittima della di essa egemonia dura a morire.
Tali radici e aspettative consistono – non senza sfumature e differenziazioni di sensibilità, di toni e di sottolineature, che tuttavia rimangono variazioni sul tema – nell’idea che la persona, la famiglia, i corpi sociali e l’intera società civile vengano prima dello Stato e del governo, e che questi debbano gravare il meno possibile su tali realtà primarie, di cui sono piuttosto il momento organizzativo – irrinunciabili garanti dell’ordine, della sicurezza e del bene comune – che fattore costitutivo e regolativo tendenzialmente totale.
Già nel 1792 (nel 1792!) uno dei padri della Costituzione degli Stati Uniti d’America individuava, profeticamente, il pericolo per la libertà e per l’autogoverno della società, che nel suo contesto politico s’identificava con i singoli “Stati” dell’Unione, rappresentato dalla dilatazione delle competenze dello Stato e del governo centrali. “Se gli uomini del Congresso potessero stanziare denaro senza limiti per il benessere generale, di cui immaginano di essere i soli e i supremi giudici, finirebbero per occuparsi personalmente persino della religione; pretenderebbero di nominare gli insegnanti in ogni Stato, contea o parrocchia e di pagarli con i soldi dell’erario pubblico; potrebbero assumere personalmente il controllo dell’edu-cazione dei bambini stabilendo in tal guisa scuole in ogni parte dell’Unione; si farebbero carico dei bisogni dei poveri; potrebbero voler regolamentare tutte le strade, non solo quelle proprie dei percorsi postali; in breve, ricadrebbe sotto il potere del Congresso tutto ciò di cui dovrebbe occuparsi la legislazione dei singoli Stati, dagli obiettivi più generali ai più minuziosi provvedimenti di polizia”. Da questo principio dell’esistenza politica derivano alcune conseguenze – non posso certo elencarle tutte – sul piano della filosofia sociale.
In base a tali conseguenze, mi sembra evidente che non è e non può essere solo questione di aliquote e di riduzione delle tasse. Soprattutto se questa è sostanzialmente apparente, cioè a “costo zero” per l’erario, in quanto compensata con un (depressivo) aumento dell’IVA. Vero e proprio pizzo di Stato sulle transazioni commerciali, quest’ultima, che grava sul consumatore (fa rima con peccatore?), il quale paga anche le tasse sulla parte del suo reddito che se ne va in IVA, come le paga sulla parte di reddito che se ne va in accise sui carburanti, trattandosi d’imposte detraibili solo pochissimo e per pochissimi.
Se l’italico centrodestra crede dunque di “comprare” il proprio elettorato con un po’ di economia (peraltro, allo stato, più promettendo che facendo), temo si sbagli. Anche perché la centralità dell’economia è rivincita postuma del marxismo, come sua rivincita postuma è la lotta bancario-statalista alla circolazione del contante, la cui abolizione per controllare definitivamente e totalmente la società e le sue dinamiche era precisamente il programma (fallito) di Lenin.
Il centrodestra, invece, ricupererà – e anche alla grande – i suoi elettori, che sembrano essere rimasti a casa nelle ultime consultazioni amministrative piuttosto che avventuratisi a sinistra, solo se e quando farà cose di (centro)destra, tra le quali, certo anche la riduzione (vera) delle tasse, ma in quanto parte di qualcosa di più strutturale.
Si tratta, anzitutto e né più e né meno, di ridurre lo Stato e la sua spesa. Ciò che i politici sono sempre più riluttanti a fare, perché se lo Stato governa tutto, chi governa lo Stato ha un enorme potere, e questo è troppo seducente per chi non abbia una solida formazione culturale e morale conservatrice e, perché no?, cristiana. Ma l’iper-trofia dello Stato è precisamente il carattere proprio – e rivendicato – d’ogni socialismo.
Lo Stato è stato (la cacofonia è intenzionale e antistatalista) ed è, con le banche, il principale fattore dell’attuale crisi economica, e non la sua soluzione o argine, come pensa Tremonti. Sono state le sue inframmettenze nel sistema creditizio, come tutti coloro che vogliono sapere sanno, e soprattutto la pretesa di finanziare e far finanziare il non finanziabile a far saltare un mercato, quello mobiliare-finanziario, che spesso non è amico di quello reale, come insegna il Papa nella Caritas in veritate (n. 21). Così come ogni rischio di default che riguarda gli Stati, non dipende dall’econo-mia libera, ma dalla sua sostituzione con l’utopia egualitaria, perseguita dai governi che si sono dati il compito di distribuire dall’alto il benessere, sottraendolo, novelli Robin Hood, ai ricchi che egoisticamente avrebbero voluto esserne gli unici gelosi titolari. Gli Stati in crisi sono in crisi perché si sono gonfiati come le rane, e ora rischiano di scoppiare, non perché hanno concesso troppa libertà economica alla società.
Ridurre lo Stato, dunque. Questo significa capire che i conti privati importano più di quelli pubblici, che la tenuta di questi se è a scapito dei primi è una falsa tenuta e un’autentica rapina, che, anzi, è dalla salute dei conti delle famiglie e di chi produce che dipende quella del bilancio dello Stato. Significa, dunque e anzitutto, re-invertire l’ordine dei rapporti.
Sono la persona, la famiglia e i corpi intermedi, come le imprese, a meritare la presunzione del diritto in una controversia, non la piovra amministrativa, che dev’es-sere invece lei a provare la legittimità delle sue pretese: l’onere della prova non incombe sul contribuente, ma sul governo.
Sono le persone e i corpi intermedi i primi, naturali e fondamentali titolari del reddito e dei beni che producono o che hanno ereditato, e non lo Stato, che quindi deve chiedere con garbo e sottovoce quello che ritiene possa servirgli per il bene comune, dopo aver trattato le proprie richieste con le rappresentanze della società.
Sono i diritti accertati delle persone e dei corpi intermedi a dover godere della clausola di esecutività, e che quindi vanno immediatamente soddisfatti, e non quelli meramente affermati da parte dello Stato come avviene oggi (solve et repete): le ganasce fiscali sono socialismo allo stato puro, e l’elettorato del centrodestra non è punto socialista (in senso tecnico).
Insomma, lo “Stato deve essere ridotto alla forma più semplice. Esso deve aver un buon esercito, una buona polizia, un ordinamento giudiziario che funzioni bene, fare una politica estera intonata alle esigenze della nazione: tutto il resto deve essere abbandonato all’attività privata”. Difesa delle frontiere (non solo dalle invasioni armate, ma anche da quelle apparentemente incruente), tutela della sicurezza, dell’ordi-ne pubblico e dell’identità culturale e religiosa nazionale, politica estera e, se vogliamo, le grandi infrastrutture: questi i compiti naturalmente propri del governo. Solo così avremo uno Stato snello il giusto per non pesare sulla nazione. La riduzione delle tasse, e cioè l’incremento di libertà per la società, che oggi lavora forzosamente più di sei mesi all’anno per lo Stato, inizia da qui. Inizia da un’azione politica tendenziale, graduale, ma inesorabile in questa direzione, affinché lo Stato sia per la società e non la società per lo Stato, così come la società è per l’uomo e la famiglia e non l’uomo e la famiglia per la società. È la sussidiarietà, principio di libertà e di efficienza, che genera la solidarietà.
Nel 1993 non feci vacanze (avevo già quattro dei miei cinque figli): tutti i miei (pochi) risparmi se li prese Amato. Quando succede qualcosa del genere, vuol dire che il patto sociale è già rotto, come gli storici Tea parties ritennero a ragione rotto il patto sociale con la Corona britannica.
Si dirà, però, che adesso la rapresentation c’è, e quindi ogni taxation è legittima. Rispondo che, se così fosse, il Parlamento non sarebbe il sostegno del governo, ma il suo interlocutore dialettico come rappresentante degl’interessi sociali, come in fondo ancora accade nei rapporti tra Presidente e Congresso negli USA. Rispondo, che se così fosse, al popolo sovrano non sarebbe impedito di pronunciarsi con il referendum sulle leggi tributarie. In realtà, la società oggi non può in alcun modo difendersi dalla pretesa fiscale che la strozzi, se non degradandosi nell’illegalità dell’eva-sione.
Si dirà e si dice, ancora, che siamo su un Titanic che rischia di affondare. Do per buona la tesi, ma ne contesto l’idoneità a giustificare le soluzioni che purtroppo non differenziano più il centrodestra dal centrosinistra: le famose “mani nelle tasche” o nei patrimoni o nei conti correnti dei cittadini.
Veniamo al caso concreto italiano. Siamo soffocati da un mostruoso debito pubblico, eredità della pessima esperienza della Prima Repubblica. Quando sento qualcuno rimpiangerla, quando sento pontificare uomini come Cirino Pomicino, che rivendicano con assurdo orgoglio le politiche di bilancio tutte fondate sul debito, davvero la mano corre idealmente alla rivoltella che non possiedo e non ho mai posseduto. Quegli uomini – e la loro memoria non sarà mai damnata abbastanza per questo: altro che tangenti, il futuro ci hanno rubato! – hanno fondato il loro potere sull’emissione di cambiali che sapevano bene non sarebbero mai stati chiamati (loro) ad onorare, ma che avrebbero avvelenato il futuro di generazioni d’italiani, tra i quali noialtri.
Gli uni lo facevano per nutrire clientele e alimentare greppie pubbliche da cui trarre consenso, gli altri per un forsennato ugualitarismo nutrito d’invidia sociale. Era quello che fu definito “consociativismo” tra maggioranza e finta opposizione (finta perché tale non può definirsi una forza politica che vota a favore o si astiene, dal finire degli anni 1960, in occasione di ogni legge di bilancio). Geniale: ci facciamo prestare danaro con il quale pagare pensioni a quarantenni, dilatare il pubblico impiego, perequare la società, intraprendere opere pubbliche senza sbocco, entrare nell’econo-mia e produrre in perdita, fingere che sanità, istruzione e trasporti possano essere assicurati a tutti praticamente gratis, e contemporaneamente aumentiamo le tasse per pagare gl’interessi del debito che ogni anno aumenta e per colpire i ricchi. Si stava realizzando – e si sta realizzando – quello che Hilaire Belloc chiamò lo “Stato servile”: una società in cui una minoranza lavora e produce per mantenere con le tasse – fino a due terzi del reddito, cioè fino a due terzi del proprio tempo, della propria vita, e talora anche oltre – una maggioranza di assistiti a vario titolo.
Ora che i nodi sono tutti venuti al pettine, chi deve pagare? Perché noi? “Perché lo Stato siamo noi”, si dice, e quindi offrire questo “contributo di solidarietà” è doveroso, e più siamo “ricchi” più dobbiamo pagare. Ebbene, questa formula è la più totalitaria e liberticida che si possa immaginare: se “lo Stato siamo noi”, noi Stato su di noi società possiamo tutto… No. Lo Stato sono “loro”, e devono lasciarci in pace tanto quanto – e non dev’essere poco – è possibile. E quindi i debiti dello Stato li paga lo Stato. Come un buon padre di famiglia – che corregge, e talvolta punisce, i figli quando sbagliano, ma né si sostituisce a loro nelle scelte legittime di vita, né pensa di nutrirsi novello Conte Ugolino del loro sangue –, mutatis mutandis, anche lo Stato quando è in difficoltà riduce le spese, abbassa il proprio tenore di vita, rinuncia al superfluo e agli sprechi, magari vende qualche proprietà, ma non ipoteca il futuro di coloro che gli sono stati affidati.
Non sono contro l’austerità dei costumi e del tenore di vita. Tutt’altro. Ma questa deve riguardare la compagine statuale – e solo nella misura in cui è la sua austerità a riverberarsi sulla società è accettabile parlare di sacrifici –, non la vita privata dei cittadini e delle famiglie, come se la riuscita sociale ed economica sia una colpa da far pagare.
Mi pare che la politica di bilancio del governo – per quanto necessitata da una congiuntura internazionale tanto sfavorevole quanto causata dagli errori del burocratismo centralista e statalista, nonché dalla prevalenza dell’economia monetaria e finanziaria su quella reale – vada nella direzione sbagliata, cioè non tocchi le cause del malessere, ma le aggravi, togliendo energie al corpo sociale e soffocandolo. Il troppo di sangue, che genera ipertensione, vertigini e squilibri, e che va salassato, circola nelle vene dell’apparato pubblico, non in quelle della società civile. La soluzione scelta – soprattutto quando colpisce le famiglie – è difficile pensare che sia di centro destra. Certo è sbagliata.
E se è vero e sacrosanto che, come sostiene Tremonti, il pareggio di bilancio dovrebbe essere imposto dalla stessa Costituzione, tale ipotetica e auspicabilissima norma andrebbe emendata con una semplice clausola dello stesso rango giuridico: tale obiettivo non può essere raggiunto aumentando, direttamente o indirettamente, il carico dei tributi, diretti o indiretti che siano. Insomma, è vietato pareggiare il bilancio con i soldi nostri, mettendoci le mani nelle tasche.
Solo tornando ad essere senza complessi e orgogliosamente centrodestra e, poiché agere sequitur esse, a fare cose di (centro)destra come questa, il governo e le forze politiche che lo sostengono ritroveranno il consenso perduto. Altrimenti i loro (già) elettori continueranno il proprio volontario esilio in patria.