Il cinema dà l’addio a Dino Risi, l’ultimo “cretino di talento”

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Il cinema dà l’addio a Dino Risi, l’ultimo “cretino di talento”

09 Giugno 2008

Dino Risi non aveva paura della morte. O forse sì, ed allora proprio per questo e grazie al suo carattere estroverso e spaccone, amava parlarne come una cosa bella, desiderata ed anche prefigurata come “ricca di sorprese”, come ebbe a dire.

E’ quindi ovvio che le sue note battute al vetriolo non risparmiassero neppure l’escatologia: a parte la nota competizione su chi fosse morto prima fra lui e Monicelli, riservò parecchie stoccate alla morte di colleghi come Antonioni e Bergman, e sontuosi epitaffi per grandi amici come Vittorio Gassman: “E’ morto il mio attore preferito. Andrà anche lui in un posto bellissimo, ma senza paure perché la morte è una cosa bellissima. Su 50 film che ho girato, 16 li ho fatti con lui. Fra noi è accaduto qualcosa che di solito non succede mai fra attore e regista. E stata un’amicizia durata 30 anni, ci siamo amati e odiati. Incredibile. Ora è lontano e mi starà aspettando dove ci sono tutti gli amici che sono già andati via. La morte non mi ha mai fatto paura, per forza deve succedere qualcosa. Credo che la morte sia una cosa bellissima”.

Ecco Dino, sei stato accontentato: ora hai ritrovato gli amici di tutta una vita. Gassman, Fellini, Zapponi, Tognazzi, Mastroianni, Sordi, Manfredi: tutti più giovani di te, ed eppure tutti che ti hanno preceduto.

Una sola battuta, quella che aveva riservato per sé, gli è rimasta poco felice e veritiera: “Devo scegliere accuratamente quando morire… Se morissi oggi, i tg mi metterebbero dopo lo sport”.

Sappiamo bene che non è andata così. D’altro canto, non avrebbe potuto avere un differente trattamento il regista che come pochi altri ha saputo interpretare vizi e virtù di quell’italiano medio che, stordito dalla violenza e dalle meschinità di una guerra mondiale e perciò così desideroso di voltar pagina, si tuffa a capofitto (spesso facendone anche indigestione) in quella voglia di benessere e novità che gli anni del boom stavano portando.  Un nuovo sogno in cui gli italiani entravano con entusiasmo e speranze negli anni sessanta e contemporaneamente vi trascinavano tutti i vizi, vecchi e nuovi, del belpaese.

Per comprendere meglio il cinema di Dino Risi, il suo impasto di popolarismo e rigore, simpatica cialtroneria e moralismo, bisogna risalire necessariamente alla sua formazione: secondo di tre fratelli (era nato a Milano il 23 dicembre del 1916 da una famiglia discreta e benestante, suo padre era il medico del Teatro La Scala, sua madre Giulia amava pittura e letteratura), rimase orfano a 12 anni e venne allevato in una girandola di zii e amici di famiglia divisi da passioni politiche contrapposte tra fascisti e liberali.

Passa due anni a Ginevra dove si forma col regista Jacques Feyder e poi torna in Italia, dove sfugge alla campagna di Russia per un’epatite e si laurea in medicina appena dopo la guerra.

Nel frattempo però aveva già compiuto i suoi primi passi nel mondo del cinema, lavorando come assistente di Mario Soldati nel film Piccolo mondo antico (1940), e successivamente come aiuto regista per Alberto Lattuada in Giacomo l’idealista (1942). In quegli anni collabora con Lattuada anche alla sceneggiatura del film Anna (1952), e con Steno e Monicelli per quella di Totò e i re di Roma (1952) di Steno e Monicelli. Dopo una serie di cortometraggi e documentari diretti a Milano, si trasferisce a Roma nel 1952 e realizza il suo primo lungometraggio: Vacanze col gangster (1952).

Dino Risi fin da subito si dimostra un regista personale ed originale, fuori dagli schemi, che sa adattare la sua cultura pragmatica e figurativa lombarda allo sviluppo di una nuova fase neorealista che lo porterà a divenire il “padre della commedia all’italiana”. L’ambiente romano gli fa bene, ed il 1956 è per lui l’anno della svolta: Poveri ma belli (scritto e diretto) racconta le vicende di un gruppo di giovani romani piccolo borghesi alle prese con le prime storie d’amore. Risi scopre e punta tutto su dei giovani attori sconosciuti come Renato Salvatori, Maurizio Arena e Marisa Allasio. Il film incassò cifre astronomiche, saldando il pubblico italiano a una nuova generazione di autori (Risi, Lattuada, Comencini, Monicelli…) che conquistavano Roma pur provenendo da altre città.

Tra gli attori con i quali Risi lavorò in quegli anni, ci sono i grandi della commedia all’italiana: Vittorio Gassman, Nino Manfredi ed Alberto Sordi, che Risi diresse nel ’58 ne Il vedovo, storia dei tentativi di un piccolo industriale che per fare fronte ai debiti tenta di uccidere la moglie per intascarne l’eredità. Ma il sodalizio con Sordi trova la sua migliore espressione con il film Una vita difficile del 1961. Due film questi con Alberto Sordi che segnano definitivamente il passaggio di Risi da un genere più “leggero” a quella satira di costume che lo renderà immortale per la storia del cinema italiano.

Infatti, tra i film che hanno fatto di Risi un maestro negli anni ’60, oltre a Una vita difficile almeno altri tre sono destinati a segnare altrettanti capitoli del nostro cinema: La marcia su Roma (1962, col duo Gassman/Tognazzi) intendeva regolare i conti col recente passato di un’intera generazione; Il sorpasso (1962) fece di Vittorio Gassman il campione indiscusso di un’intera epoca; I mostri (1963), dove con Vianello e Tognazzi compose una galleria di viltà e deformità in cui pubblico e critica ritrovavano i cromosomi della società in rapida trasformazione.

Ma fu la collaborazione con Vittorio Gassman quella più duratura nella carriera di Risi, con ben quindici film in comune. Da Il mattatore del 1960, a Il sorpasso (1962), da Il successo (1963), a Il tigre (1967), da Il profeta (1968) fino al bellissimo Profumo di donna del 1974, tratto da “Il buio e il miele” di Giovanni Arpino, che fruttò due nomination all’Oscar, una Palma d’Oro a Cannes per Vittorio Gassman, e venne saccheggiato da Al Pacino nel 1992 per il suo Scent of a woman.

Ma anche se il binomio “commedia all’italiana/Dino Risi” potrebbe dare luogo ad un’associazione d’idee assolutamente spontanea, è anche vero che il bravo cineasta milanese fondò il suo successo non solo sulla denuncia degli italici vizi ma anche e soprattutto su un rigoroso taglio con la tradizione.
Gli anni Sessanta assistettero al tramonto della generazione di quegli anziani registi mestieranti capaci solo di piazzare una macchina da presa davanti al mattatore di turno e attendere con pazienza le sue geniali improvvisazioni (come fu ad esempio per molti film di Totò). Se i registi assumono un ruolo di primo piano e una propria personalità anche nell’ambito del cinema meno impegnato, è soprattutto grazie a Dino Risi ed al suo stile innovativo: i ritmi velocizzati (ne I mostri  un episodio può durare anche meno di due minuti), gli stacchi più eloquenti di un monologo, i piani-sequenza dinamici, con gente che entra e esce dall’inquadratura… sono tutte invenzioni tecniche che potevano scaturire solo dalla creatività di un giovane, quale era appunto Risi in quegli anni.

Eppure di sé, diceva semplicemente di essere “un cretino di talento”.

Di certo la sua lingua tagliente e puntuta è stata una delle caratteristiche che più l’ha fatto amare (e forse anche odiare…) nell’ambiente. Ne aveva per tutti, genericamente (i registi “col cuore a sinistra e il portafoglio a destra”) e personalmente. Con Moretti, dopo aver lodato il suo Caimano, disse: “Si piace troppo, quando vedo i suoi film mi viene da dire: spostati e lasciami vedere il film”.

Monica Bellucci fu lanciata da lui, nel film per la Tv Vita coi figli del 1991. Eppure lui stesso disse: “E’ tutto tranne che una grande attrice". Silvio Muccino? “Non mi piace, ha un volto insipido, non mi sembra bravo".

Ma la battuta più bella la riservò per Walter Veltroni, quando due anni fa, parlando della Festa del cinema di Roma, consigliò all’allora Sindaco di prendere due piccioni con una fava invitandolo nell’andare ad organizzare “un Festival del Cinema in Africa”.

E’ per me opportuno concludere questo ricordo di Risi con le parole di Paolo Villaggio, che più di ogni altro è riuscito ad inquadrare la grandezza del personaggio ed il suo spessore all’interno della storia del cinema italiano:

“Vorrei ricordare la sua intelligenza, che era straordinaria. Quel finto cinismo che aveva lui, perché odiava le sovrastrutture, la retorica, il finto buonismo; lui che di fondo era capace di grandi slanci, come tutte le persone grandi… mascherava i suoi momenti di commozione e di debolezza, ed era il suo aspetto più divertente. La cosa più bella che aveva era la sua creatività, e ricordo come si divertiva a fingere di essere piccolo, mediocre, cinico… quando invece era esattamente l’opposto”.