Il cinema italiano è allo sbando ma qualche speranza per salvarlo c’è

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Il cinema italiano è allo sbando ma qualche speranza per salvarlo c’è

01 Marzo 2009

Anticipando di un trentennio la crisi etico-economica di questo primo scorcio di Millennio il cinema italiano ha confermato che l’arte sa anticipare le tendenze evolutive della società. Dalla fine degli anni ’70 il cinema italiano si è avvitato in una spirale discendente cui è seguito, dagli anni 90, un decennio di alti e bassi. Sulle ragioni che hanno provocato questo crollo sono state scritte parole a fiumi ma nessuno ha offerto una spiegazione esauriente del perché il cinema italiano sia rimasto lontanissimo dagli standard di pubblico e critica degli anni del neorealismo.

L’interrogativo se lo è posto ultimamente un regista di culto, Quentin Tarantino, il quale sostiene, da cineasta “indipendente”, che accanto alle firme autoriali un cinema per crescere deve riscoprire la componente popolare, quella dei generi, che ormai è totalmente assente dal panorama italiano. La riflessione fa sorgere il sospetto che i figli della generazione del dopoguerra sentano ancora la modestia delle loro origini avendo sprecato la possibilità del salto culturale nell’esperienza del ‘68. Non è pertanto sacrilegio indagare sulla egemonia che gli Autori hanno esercitato sull’intera industria dalla fine degli anni ’60, senza riuscire ad eguagliare le generazioni che si erano formate all’esito del lungo tirocinio del fascismo e della guerra. 

A proposito del rapporto tra committenza e artisti cui, nella Firenze di fine Quattrocento, era seguita la rivoluzione artistica chiamata Rinascimento, Martin Wackernagel scriveva: "guardandosi intorno, viene da chiedersi se non sia il caso di ricostruire almeno alcune di quelle condizioni, in senso sia materiale che ideale, a vantaggio degli artisti di oggi e domani". Questa visione rivoluzionò lo storiografia dell’arte perché focalizzava il compenetrarsi delle istanze del committente con quelle dell’artista, elevando il primo da semplice finanziatore ad agente ispiratore dell’opera stessa. Fino al ‘68 i grandi produttori privati De Laurentiis, Ponti, Cristaldi ecc, seppero intervenire per evitare che le asperità intellettuali e la vena creativa del regista e dello sceneggiatore interrompessero il dialogo con lo spettatore e scadessero a soliloquio autotelico. E la sala ha premiato questo mix equilibrato di arte di incidere e rotture culturali con introiti adeguati a sostenere il sistema. Ad un certo punto però gli autori hanno iniziato a chiedere più libertà, fino a cedere ai richiami di alcune ideologie politiche per assicurarsi totale emancipazione. La televisione dal canto suo è entrata nel settore con l’irruenza del rinoceronte e gli incassi sono crollati.

La politica del sostegno pubblico si è estesa all’offerta cinematografica ma l’effetto non è stato brillante. L’articolo 28 (soldi pubblici a fondo perduto) ha spianato la strada a due nuovi tipi di produttori: quella degli “acchiappa e fuggi” e quella, numericamente più significativa ed insidiosa dei “profeti autoriali” vitaminizzatasi con l’ideologia sessantottina. Questi ultimi si sono organizzati attorno a strutture come il Centro Sperimentale di Cinematografia, per decenni insensibile ad ogni invocazione degli “spettatori” perché considerati gregge alienato dalla Società consumistica. E con la scusa dell’opera di qualità, quella che non si vende e che non piace ma solo perché “fa pensare”, hanno ottenuto finanziamenti pubblici periodicamente rimpinguati grazie alla legge Veltroni (n. 122/98). Il cinema ha così sfornato decine di pellicole invendibili quanto incapaci di convincere le giurie dei festival: dal 1980 il nostro cinema si è aggiudicato una sola Palma d’oro e due Leoni d’oro a fronte delle 11 vinte in precedenza a Cannes e dei 15 a Venezia. Una débâcle totale che in qualsiasi altro paese avrebbe stimolato discussioni sull’esigenza di ripensare l’intero modello ma in Italia ha portato alla promozione degli Autori negli organi direttivi delle più importanti Istituzioni Cinematografiche: Mostra del Cinema, Istituto Luce, Centro Sperimentale-Scuola Nazionale di Cinema, Rai-Cinema !

Ma siamo all’epilogo. L’avvento della Pay-per-view, IPTV, Tv satellitari, Homevideo, veri e propri predatori insaziabili di contenuti, ha offerto ai film di raggiungere il break even, allungandone la “vita”. Ma forse tutto questo non è un male per il cinema. In particolare non lo sarà se lo Stato saprà cogliere l’occasione per un passo indietro e favorire la ricostituzione della diarchia produttore-autore ed al tempo stesso per aiutare il cinema di qualità con la defiscalizzazione e le tasse di scopo per indirizzargli percentuali degli introiti derivanti dall’intrattenimento.