Il Colle congela il decreto e rinvia alle Camere. Bossi: “Passaggio previsto”

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Il Colle congela il decreto e rinvia alle Camere. Bossi: “Passaggio previsto”

04 Febbraio 2011

Giulio Tremonti non ha dubbi: federalismo fiscale significa “svolta storica”. Due parole che ripete nella conferenza stampa con Calderoli a Palazzo Chigi per spiegare il decreto sul federalismo municipale varato dal governo. Il ministro per la Semplificazione è sicuro dei contenuti della riforma e annuncia che riferirà alle Camere. Due ore dopo, arrivo lo stop del Colle che giudica il dreceto "irricevibile" perché manca il passaggio parlamentare. L’opposizione insorge e grida al golpe, Bossi telefona a Napolitano per rassicurarlo: il governo comunicherà alle Camere sulla riforma. 

E’ nella lettera inviata al premier che il presidente della Repubblica dice di voler intimare l’alt al decreto dopochè il testo della riforma era uscito dalla Bicameralina con un pareggio: un non voto, secondo la maggioranza, una bocciatura per le opposizioni. Secondo i rilievi del Quirinale "non ci sono le condizioni" per l’emanazione del decreto perchè non è stato perfezionato il procedimento per l’esercizio della delega previsto dai commi 3 e 4 della legge 42 del ‘2009 che sanciscono "l’obbligo di rendere comunicazioni alle Camere prima di una possibile approvazione definitiva del decreto in difformità dagli orientamenti parlamentari". In altre parole, niente firma senza un nuovo passaggio parlamentare.  Una doccia fredda per il centrodestra. E’ il ministro per le Riforme a rassicurare il Capo dello Stato in una lunga telefonata assumendosi un doppio impegno: quello della comunicazione alle Camere sulla riforma e quello di andarlo a trovare la prossima settimana.

Ma cosa è accaduto? Probabilmente, alla base della lettera di Napolitano c’è un’ interpretazione diversa del regolamento della Bicamerale in relazione alla situazione di parità scautira durante il voto di ieri (è finita 15 a 15). In sostanza, per il Colle il pareggio equivarrebbe a un respingimento e dunque a questo punto è obbligatorio che si esprima definitivamente il parlamento. Secondo la versione della maggioranza, invece, il pronunciamento della Bicameralina equivale a un parere non espresso e come tale non inficia la legge delega del governo, cioè non ostacola l’iter attuativo della riforma.

Certo,  lo stop del Quirinale poteva essere messo nel conto dalla maggioranza e magari sarebbe stato più opportuno varare il decreto nel Consiglio dei ministri di martedì e nel frattempo esercitare una sorta di moral suasion sul Capo dello Stato rassicurandolo sull’iter parlamentare. E’ altrettanto vero però, che sul piano politico la Lega in primis aveva bisogno di un segnale forte dal Cav. dopo il mezzo scivolone del testo Calderoli in commissione. E ancora: il problema sta a monte, ovvero nello squilibrio di una commissione dove il terzo polo ha ben quattro rappresentanti su un totale di trenta membri e che in generale non rispecchia la rappresentanza in Parlamento. Dopo lo strappo dei finiani, nella maggioranza si era optato per una linea di fair play lasciando in sostanza le cose come erano state fino a quel momento. Ma ora è chiaro che il riequilibrio degli assetti interni va rivisto – come hanno già annunciato autorevoli esponenti del Pdl e della Lega -, anche per evitare situazioni come quella di ieri.

La via della mediazione col Colle avrebbe evitato o quantomeno ridotto la portata degli attacchi che oggi tutto il fronte delle opposizioni non lesina al governo. E c’è perfino chi come l’Udc arriva a chiedere le dimissioni di La Loggia, presidente della Bicamerale, reo di aver piegato il regolamento della commissione "a fini di parte". Detto questo però, il passaggio parlamentare ci sarà e la riforma va avanti. A Montecitorio la maggioranza può contare su 316 voti  (come dimostrato anche ieri sul Rubygate) e in più confida anche nel fatto che qualcuno dalle opposizioni abbandoni il no pregiudiziale dal momento che molti emendamenti delle forze di minoranza sono stati recepiti nel testo dell’esecutivo. Vedremo. 

Nella conferenza stampa a Palazzo Chigi Tremonti rilancia lo slogan "vedo, pago, voto" e insiste su un concetto: il federalismo è un provvedimento che chiude un periodo iniziato a metà degli anni ’70 in cui l’Italia è stato l’unico Paese a non avere una vera e propria finanza locale. Ora, ha spiegato, l’Italia punterà dritta alla riduzione delle tasse e degli sprechi.

Ma il federalismo è anche una valvola delicata dalla quale dipende la tenuta stessa del governo e la querelle sul pareggio in commissione Bicamerale e sul no del finiano Mario Baldassarri (il suo voto era determinante), è stata affrontata in conferenza stampa. “Sono intervenuti fatti politici indipendenti dal decreto”, dice Tremonti e Calderoli definisce il voto di ieri in commissione "un vero e proprio sfregio".  La composizione della Bicameralina, spiega il ministro leghista, dovrebbe essere proporzionale alla consistenza numerica dei gruppi. Al contrario di quanto succede alla Camera e al Senato, dove c’è una maggioranza assoluta in Bicamerale c’è uno squilibrio evidente: quello determinato da membri che, a seguito dello scontro interno alla maggioranza, hanno trasmigrato da un gruppo parlamentare ad un altro. Per questo, ribadisce come sia fondamentale rivedere la composizione della Bicamerale.

E proprio su questo punto Calderoli sembra puntare il dito verso il presidente della Camera, Fini: "Nessuno è intervenuto a modificare la composizione dopo la creazione di nuovi gruppi. Ieri in temini calcistici c’era una squadra in 12 e una in 10, con l’arbitro che si girava dall’altra parte e pensava a creare forze politiche senza vedere che la composizione era cambiata”. Nonostante ciò il ministro si è mostrato sereno perché è convinto che al di là della forma imposta dalle regole parlamentari, quello che conta di più è la sostanza, ovvero i contenuti del provvedimento.

Nello specifico i contenuti sono stati articolati in otto decreti. Federalismo demaniale, fabbisogni standard di Comuni e Province, Roma Capitale e Fisco municipale, che consente la valutazione delle spese da parte del cittadino. E poi ancora: Autonomia fiscale degli enti territoriali (con la relativa riduzione dell’Irap), Perequazioni infrastrutturali, Armonizzazione dei bilanci e infine Premi e sanzioni per le amministrazioni degli enti. Otto decreti che per il ministro dell’Economia si possono riassumere in un’unica formula: “Vedo, pago, voto”. Ovvero una riforma che mette il cittadino-elettore nelle condizioni di esercitare effettivamente il controllo democratico sulle istituzioni attraverso una nuova trasparenza sulle voci di entrata e di spesa.

La svolta è iniziata, insomma, ma la strada è lunga. Già, perché gli effetti della riforma non si vedranno sul breve periodo. Lo conferma lo stesso Tremonti quando dice che "l’albero non si raddrizza di colpo, ci vorrà molto tempo, ci vorranno altri cambiamenti, ma è il percorso giusto per questo paese”. E al netto delle spallate politiche all’esecutivo, il consenso sul provvedimento è trasversale. “La mia impressione è che tutta la Commissione fosse in senso federalista, il differenziarsi delle posizioni era su un ‘federalismo insufficiente’ o ‘troppo aggressivo’ ma sono state sempre varianti sul consenso di base sul federalismo", chiarisce il titolare del Tesoro.

Dunque, il prossimo step della riforma saranno le Aule di Senato e Camera. Un passaggio che come osserva Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori Pdl "consentirà di verificare l’esistenza di una maggioranza favorevole ai provvedimenti sul federalismo, e renderà ancor più chiaro che la composizione attuale della Commissione bicamerale, i cui poteri sono delegati dalle Camere, non rispecchia i reali equilibri parlamentari fra maggioranza e opposizione".