Il compromesso Obama-Putin basterà a risolvere la crisi siriana?
20 Giugno 2012
A margine del G20 di Los Cabos in Messico, lunedì scorso si è tenuto un summit bilaterale tra Barack Obama e il neo rieletto – per la terza volta – presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin. Si tratta del primo confronto diretto tra i due, dopo il rifiuto del presidente russo di presentarsi al faccia a faccia con Obama durante il G8 di Camp David del Maggio scorso. Tema più scivoloso, neanche a dirlo, lo stato della crisi siriana.
A conclusione di un incontro protrattosi per più di due ore, i due leader sono addivenuti a una parvente piattaforma politica comune. Un minimo denominatore tuttavia assolutamente incapace di sciogliere i colossali nodi geo-strategici sul tappeto: “Ci siamo trovati d’accordo circa la necessità di una fine immediata di tutte le violenze. Dovrà attuarsi un nuovo processo politico per prevenire la guerra civile”. E ancora: "Pieno sostegno al piano di Kofi Annan", è quanto fissato dalla nota congiunta diramata al termine del summit. Un documento assai vago e prevedibile, verrebbe da dire. Le distanze tra i due Paesi, sul tema, appaiono siderali, quasi incolmabili.
Ma entro quale contesto s’è andato ad inserire il lungo colloquio tra Obama e Putin? A tutt’oggi, in Siria, i combattimenti non sembrano affatto in procinto di cessare. Tutt’altro. A Homs, i bombardamenti delle forze fedeli a Bashar Al Assad proseguono senza sosta. Obiettivi delle operazioni: impadronirsi dei quartieri controllati dai ribelli e prepararsi all’assalto finale della città. Secondo il Consiglio nazionale siriano, poi, nel caso in cui tale scenario dovesse avversarsi, le conseguenze sarebbero disastrose: “Massacreranno tutte le persone che troveranno”, hanno dichiarato in più d’una occasione gli oppositori del regime. Disastrose sono anche le condizioni umanitarie della popolazione, a corto di acqua, cibo e medicinali. Sabato scorso, inoltre, gli osservatori delle Nazioni Unite impegnati in teatro sono stati costretti a sospendere, per salvaguardare la propria incolumità personale, le missioni di monitoraggio del conflitto a seguito del suo intensificarsi.
Mesi di appelli per il cessate il fuoco sono valsi praticamente a nulla. Il regime di Assad pare assolutamente inscalfibile ad ogni genere di pressione. E ora, a complicare ulteriormente l’affaire sotto l’aspetto diplomatico-militare, ecco a voi la decisione del Cremlino di inviare a Tartous, in Siria – unica base russa del Mediterraneo – due navi con alcune unità di marines. Ragioni ufficiali di tale dispiegamento: la protezione dei cittadini russi, la volontà di non abbandonarli ed evacuarli dalle zone del conflitto in caso di necessità. Sarà vero? I dubbi, al riguardo, non possono non sorgere spontanei. Un dato: ogni nave può contenere all’incirca 300 marines e una dozzina di tank. In altre parole, si tratterebbe – se effettivamente attuato – del maggior dispiegamento di truppe russe in territorio siriano della storia. A dimostrazione inequivocabile, nel caso, di quanto Mosca sia preoccupata da una possibile evoluzione del conflitto verso una vera e propria guerra civile.
La Siria è anche l’ultimo alleato russo nel Medio Oriente, nonché cliente di lungo corso della sua sempre fiorente industria bellica. Solo nel 2011, Mosca ha venduto al suo alleato armi per 960 miliardi di dollari. Nel periodo compreso tra il 2007 e il 2010, invece, tali forniture ammontano addirittura a quota 4.7 miliardi di dollari. Un regime change a Damasco, evidentemente, provocherebbe una riduzione di un business di massiccia entità come quello delle armi. Perché il regime assadiano, per il Cremlino, prima di rappresentare un importante alleato sul piano strategico è anzitutto un creditore.
Un’alleanza, quella russo-siriano, in grado quindi di determinare la difesa a oltranza di Mosca. Anche e soprattutto in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lo scorso Febbraio, a impedire di fatto qualsiasi tipo di intervento militare.
Gli Usa, tra le altre cose, non si trovano nella condizione di poter tirare troppo la corda. L’apertura del corridoio russo verso l’Afghanistan, attraverso l’Uzbekistan e in sostituzione di quello pakistano – del tutto insicuro a causa della massiccia presenza talebana – ha reso possibile l’utilizzo di tale passaggio per gli approvvigionamenti logistici: carburante e pezzi di ricambio per i mezzi militari, acqua e viveri per le truppe dispiegate. Avrebbe senso, per tali motivi, inimicarsi Mosca? Una domanda dal sapore retorico.
Insomma, un gran bel pantano. Il sentiero della diplomazia, per i vertici statunitensi, appare più che mai impervio. E in questo senso, il comunicato congiunto circa la “fine immediata di tutte le violenze in Siria” rappresenta una mero compromesso diplomatico.