Il condono non è una misura che premia i furbi ma la miglior lotta all’evasione

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Il condono non è una misura che premia i furbi ma la miglior lotta all’evasione

10 Ottobre 2011

La proposta di un condono fiscale rilanciata dal capogruppo dei deputati del Pdl, Fabrizio Cicchitto, non va sottovaluta. Se vincolata a recuperare risorse per «mettere in moto la crescita e per abbattere il debito», è un’idea buona e giusta perché non chiede nuovi sacrifici o nuove tasse ai contribuenti. Il condono, infatti, diversamente da come accadrebbe con un’imposta straordinaria (la patrimoniale, per esempio), farebbe pagare soltanto agli evasori e non anche a chi ha fatto sempre il suo dovere con il fisco. Chi si oppone sostiene che la soluzione è sbagliata perché «premia i furbi». Non è così in quanto, per assumere i connotati di norma premiale, il condono dovrebbe consentire di sfuggire alla tassazione ordinaria e/o a un accertamento inevitabile e sicuro del Fisco. Ciò non avviene oggi; infatti, nonostante i passi fatti in avanti, la lotta all’evasione non garantisce lo screening completo di tutti i contribuenti. Ne deriva, per i furbetti, una probabilità di essere scoperti molto, molto bassa, calcolabile attorno ad un 5% della platea dei noti al fisco. Perciò, è vero che con il condono i furbi sono ammessi al pagamento delle imposte a prezzo scontato, ma di fronte a tanta evasione (a quanto siamo arrivati? a 150/200 miliardi di euro?), ad un’economia in affanno e alla probabilità scarsa di scovare i furbi, meglio questo poco che il niente.

Nel 2010, la somma recuperata con la lotta all’evasione da Agenzia delle entrate, Inps ed Equitalia è stata di 25 miliardi di euro tra imposte, tasse e contributi. L’Agenzia ha recuperato 10,5 miliardi di euro (15% in più rispetto al 2009) a cui vanno aggiunti altri 6,6 miliardi di euro per rettifiche dei crediti d’imposta non spettanti (in tutto quindi 17,1 miliardi di euro). Il recupero dei contributi evasi da parte dell’Inps è stato di 6,4 miliardi di euro (12% in più rispetto al 2009). Equitalia ha riscosso 1,9 miliardi di euro mediante i ruoli (19% in più rispetto al 2009). Per recuperare quei 17,1 miliardi d’euro l’Agenzia ha fatto 278.699 azioni di controllo: 1.643 tutoraggi alle grandi imprese (cioè con volume d’affari non inferiore a 200 milioni di euro); 8.602 interventi esterni; e 268.454 accertamenti che hanno riguardato 2.609 grandi imprese, 15.524 medie imprese, 219.878 imprese minori e professionisti e, infine, 30.443 persone fisiche.

Per quanto siano “mirati” (studi di settore, spesometro e via dicendo), questi controlli appaiono comunque in numero esiguo rispetto alla platea dei potenziali evasori parziali, cioè dei contribuenti italiani che presentano una dichiarazione dei redditi (sugli evasori totali non è possibile fare stime su “dati” certi, come con le dichiarazioni dei redditi). Nell’anno 2009 (non essendo disponibili i dati del 2010), le persone fisiche che hanno presentato una dichiarazione dei redditi (Cud, 730 o Unico) sono state 41.523.054; di queste 3.943.453 hanno una partita Iva e hanno dichiarato un reddito da attività professionale o d’impresa. Le dichiarazioni presentate dalle società di persone sono state 1.006.198; quelle degli enti non commerciali 137.598; quelle delle società di capitali (gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2008) 1.030.161. In tutto, dunque, le dichiarazione dei redditi presentate dai contribuenti sono state 43.697.011; quelle dei contribuenti titolari di partita Iva 6.117.410. E’ questo il potenziale serbatoio di evasori parziali.

Un’efficace lotta all’evasione dovrebbe garantire il passaggio a setaccio di tutte le 44 milioni circa di dichiarazioni dei redditi; non solo con controlli formali (cosa che avviene automaticamente con i software dedicati), ma anche con accertamenti sostanziali. E’ chiaro che è una cosa impossibile. Proviamo allora a restringere il campo di azione, eliminando dai controlli i soggetti in possesso di Cud (sono pensionati e dipendenti, anche se talvolta con un secondo lavoro e potenzialmente quindi anche loro evasori) per limitarlo ai soli possessori di partita Iva. Le dichiarazioni da controllare si riducono a 6.117.410; un’ulteriore scrematura può esentare dai controlli anche gli enti non commerciali: si arriva così alla cifra di 5.979.812 dichiarazioni da controllare.

Mettendo a rapporto i dati sulle dichiarazioni dei redditi con quelli sui controlli si ottiene una sorta di “indice” sull’efficacia della lotta all’evasione. Ebbene, i controlli sostanziali sono stati lo 0,63% del totale dei contribuenti; il 4,56% dei contribuenti titolari di partita Iva (persone fisiche, società, enti non commerciali); il 4,66% dei contribuenti titolari di partita Iva, esclusi gli enti non commerciali. L’indice, però, va corretto di un’ulteriore variabile, sempre probabilistica, che tenga conto del fatto che, se si è riusciti a scamparlo in un anno non è detto che il pericolo di essere scoperti verrà scampato pure nei successivi cinque anni, quant’è il periodo a disposizione del Fisco per controllare le dichiarazioni dei redditi (la prescrizione). Tenendo conto di quest’altra variabile, la probabilità sale, ma non oltre il 15/20% nel migliore dei casi. E si è parlato soltanto dei potenziali casi di evasione “nota”; figurarsi dei controlli e dell’efficacia del contrasto all’economia sommersa.

Questi numeri attestano che restano (ancora) troppi i contribuenti che riescono a farla franca da ogni controllo: questo è il vero premio dato ai furbi; questa l’insidiosa tentazione a nascondere materia imponibile al Fisco. Avere, cioè, una significativa probabilità di non essere scoperti.

La realtà è che la lotta all’evasione è sempre stato e sempre resterà un problema per tutti i governi. Non ha colore politico, perché è un problema che ha radici culturali e sociali, a cui si può rispondere solo con una maggiore giustizia sociale, con imposte basse e con uno Stato meno guardone e meno coercitivo.

Di fronte a un dilemma del genere, allora, talvolta (cioè in situazioni di emergenza, come è l’attuale per la crisi e per l’affanno dei conti pubblici) diventa cosa buona e giusta il ricorso a soluzioni alternative, quale può essere il condono fiscale. I numeri danno ragione della convenienza dal punto di vista finanziario e contribuiscono a dare una giustificazione anche dal punto di vista etico. Una convenienza finanziaria perché consentirebbe di recuperare 50-70 miliardi di euro o forse più, che con moltissima probabilità resterebbero per sempre sconosciuti al fisco. Se solo una metà di queste risorse recuperate viene poi impiegata per ridurre il debito pubblico, si ottiene un ulteriore risparmio strutturale, per il futuro, del risparmio degli interessi dovuti sul debito pubblico tagliato. Dal punto di vista etico, la giustificazione deriva dal fatto che il fine della lotta all’evasione non è la punizione del trasgressore, ma recuperare ciò che egli non ha pagato (va e non peccare più!). E, infine, perché – con riferimento alle parole del ministro dell’economia che, più di tutti, sembra ostacolare l’ok alla misura – la possibilità di far pace con il fisco è misura propedeutica da offrire ai cittadini se si vuole davvero «cambiare registro e scommettere sulla prevenzione e non più soltanto sulla repressione», come annunciato da Giulio Tremonti nell’intervista ad Avvenire.