Il Congo esplode e vanno in fumo anni di peace-building

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Il Congo esplode e vanno in fumo anni di peace-building

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo rischia di riaccendersi una guerra che ha fatto milioni di morti, coinvolgendo nella lotta sei diversi eserciti africani. Per la terza volta in 12 anni, un gruppo di ribelli controllato dai Tutsi, appoggiato dal vicino Ruanda, sta portando avanti un’offensiva che potrebbe concludersi a breve con la conquista di Goma, la capitale della provincia settentrionale di Kivu. Ancora una volta, Kinshasa ha chiesto l’aiuto dell’Angola per resistere a quella che ritiene essere un’aggressione ruandese. Ancora una volta, i combattimenti hanno provocato una crisi umanitaria, con più di 200 mila persone che sono andate a ingrossare quella enorme massa di 1,2 milioni di persone che si erano già rifugiate nei campi profughi.

Ma negli attuali scontri tra le forze del governo di Kinshasa, guidate dal presidente Joseph Kabila, e i ribelli Tutsi guidati da Laurent Nkunda, non tutto si sta svolgendo secondo il vecchio copione. Le accuse di Nkunda, secondo cui il governo è composto dai promotori del genocidio tutsi in Ruanda, sono ridicole. Il presidente Kabila, per quanto sia stato una profonda delusione per i suoi partner internazionali e per gli stessi congolesi, è assai lontano dall’aver commesso tali crimini. Può vantarsi di essere arrivato al potere con mezzi assai più democratici di quelli tradizionalmente adottati nel vicino Ruanda, dove gli oppositori politici finiscono spesso in galera alla vigilia di un’elezione presidenziale.

Kabila, anche grazie al massiccio appoggio delle potenze occidentali, del Sudafrica e dell’Angola, fu legittimamente eletto nel novembre del 2006, con una votazione che chiuse il capitolo internazionale del processo di pace in Congo. Il più ampio capitolo della situazione geopolitica centroafricana ha compiuto chiari progressi nella primavera del 2003, con il ritiro degli ultimi contingenti stranieri dal paese. Ma non si è mai veramente concluso. Non c’è mai stato un vero disarmo dei ribelli Hutu che si trovano nel Congo e dei loro capi che sono tra i responsabili del genocidio in Ruanda, mentre la provincia settentrionale di Kivu è rimasta crocevia di un conflitto mortale. Alcuni dei vecchi ribelli Tutsi si sono rifiutati di entrare nell’esercito regolare del Congo, affermando che tra le minacce che mettono in pericolo la sopravvivenza della minoranza Tutsi c’è anche il governo, e hanno dato vita a una nuova insurrezione subito dopo l’inizio della transizione dell’agosto 2003. 

Sono principalmente due i fattori che spiegano perché Kinshasa continui a collaborare militarmente con i ribelli Hutu del Ruanda, nonostante le indescrivibili sofferenze patite dai civili nei territori controllati dai miliziani. Primo, esiste una forte sete di vendetta contro il governo ruandese e i suoi vecchi burattinai, un sentimento che unisce l’alto comando congolese e la cerchia dei collaboratori più vicini a Kabila e che trae origine dalle umiliazioni sofferte nel corso delle due guerre regionali iniziate dal Ruanda. Lo stesso desiderio di rivincita si trova nella base politica del governo nelle regioni di Kivu e del Katanga settentrionale che hanno dovuto sopportare quattro anni di occupazione brutale da parte dei ruandesi.

Secondo, l’eventualità che l’esercito congolese riesca a reclutare o disarmare i tutsi di Nkunda non è verosimile. Un processo di integrazione è stato tentato nel 2006 ed è fallito nel giro di pochi mesi, compromesso tanto dall’ostilità e dalla corruzione del corpo ufficiali quanto dall’intransigenza di Nkunda. A meno che Kabila non tenga a freno gli estremisti e accetti una supervisione internazionale dell’esercito, almeno nelle province, non ci sarà alcun progresso decisivo nello smantellamento e nel disarmo delle milizie Hutu ribelli, e nessuna integrazione con gli uomini di Nkunda – la sola via per ristabilire l’autorità dello Stato. 

La dichiarazione di Nairobi del novembre 2007, negoziata dall’Onu, e la Pace di Goma dello scorso gennaio hanno fornito una struttura politica sufficientemente completa per disarmare tutte le milizie. Ma la realizzazione di questi accordi è rimasta inattuata.

Trattare con gli insorti tutsi richiederà un drastico cambiamento dell’atteggiamento internazionale verso Nkunda e il Ruanda. Nkunda confida nella sua superiorità militare, resa possibile dal libero accesso al territorio di Ruanda e Uganda, dove si procura armi e forniture mediche. Inoltre Nkunda recluta giovani nei campi profughi tutsi e tra i soldati smobilitati dell’esercito ruandese. Last but not least, Nkunda sa che può manipolare facilmente gli occidentali, ancora oppressi dai sensi di colpa per il genocidio del 1990 in Ruanda, agitando lo spettro che una tale tragedia possa ripetersi; eppure le sue milizie si sono macchiate delle peggiori violazioni di diritti umani sin dal 2004, come e peggio dell’esercito nazionale.

Le motivazioni del Ruanda risiedono non solo nel desiderio di proteggere l’etnia Tutsi, ma anche nell’interesse di controllare le risorse minerarie del Congo. Nkunda non avrà alcun motivo per deporre le armi a meno che non venga sottoposto a una pesante pressione dalle potenze occidentali e dal Sudafrica che lo costringa a ridurre la libertà di movimento e le basi degli insorti sul suo territorio, e affinché rispetti i suoi impegni rispetto alla dichiarazione di Nairobi.

Non sarebbe saggio da parte dei membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu aspettarsi che sia proprio la missione delle Nazioni unite a risolvere questi problemi. Terminare quest’ultimo capitolo della guerra in Congo richiederà continue e significative pressioni da parte di Stati Uniti, Cina, Francia, Regno unito, Sudafrica e Belgio, l’ex potenza che colonizzò quelle terre. Nello specifico, le Nazioni Unite dovranno pretendere che Kinshasa e Kigali realizzino il dettato della dichiarazione di Nairobi; insistere che Nkunda si ritiri nelle sue basi di partenza; e chiedere a Kabila di rimuovere tutti i comandanti militari che collaborano con gli estremisti Hutu.

La comunità internazionale ha già investito miliardi di dollari per costruire e mantenere la pace in Congo. Non investire adesso in una decisa azione diplomatica rischierebbe di vanificare quegli sforzi.

Grignon è l’Africa program director, Hara il vicepresidente dell’International Crisis Group.

Traduzione Enrico De Simone

Tratto da "The Wall Street Journal Europe"