Il Congresso vota il piano di Bush, turandosi il naso

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Il Congresso vota il piano di Bush, turandosi il naso

29 Settembre 2008

Secondo il presidente Bush  è una buona legge: “Questo piano manda un forte segnale ai mercati del mondo, mostrando che gli Stati Uniti stanno procedendo seriamente per ridare stabilità al nostro sistema finanziario. Senza il piano di salvataggio, il costo per l’economia americana avrebbe potuto essere disastroso”. Il senatore democratico Harry Reid ha offerto delle specifiche sul provvedimento che dovrebbe essere diviso in 3 tranche: 250 miliardi subito, altri 100 dopo una verifica della Casa Bianca, e altri 350 dopo un nuovo voto del Congresso. La fronda è soprattutto in casa repubblicana, tra i conservatori che non avrebbero mai immaginato quest’ultima versione “populista” di Bush – dalla nazionalizzazione di Freddie Mac e Fannie Mae al piano per salvare i colossi pericolanti dell’alta finanza. Il leader della minoranza repubblicana alla Camera, John Boehner, ha ammesso di non sapere quanto sostegno avrà il piano tra i suoi colleghi. La precondizione richiesta dai Democratici è di avere un’approvazione bipartisan della legge, ed è per questo che – turandosi il naso, anche i repubblicani più critici alla fine dovranno piegarsi (si spera), temendo di inasprire e prolungare la recessione economica. La crisi si sta spostando verso l’Europa ed è probabile che altre istituzioni finanziare saranno nazionalizzate, verranno assorbite o più semplicemente falliranno.

Nella maratona dell’ultimo weekend, al Congresso si è cercato di aggiungere una serie di clausole rispetto alla proposta originaria di Bush. L’obiettivo è di proteggere i contribuenti dalle ricadute di una politica che rischia di essere troppo "compassionevole" con chi ha sbagliato e troppo dura con gli innocenti. “Quanto verranno a costare questi salvataggi per le mie tasche?” si chiedono giustamente i cittadini che tra poco più di un mese andranno a votare. Ed è giusto che il governo federale usi i fondi del fisco per ripianare agli errori altrui? Per questo motivo è spuntata la proposta di mettere un tetto ai guadagni colossali dei supermanager: “La festa è finita – ha detto Nancy Pelosi, lo speaker democratico alla Camera – l’era dei paracadute d’oro per gli operatori di Wall Street è al capolinea”. E’ il tramonto dei BSD, i “big swinging dick” (i “cazzoni danzanti”), che in questo ventennio hanno fatto miliardi con hedge funds, private equity e investment banking. Quei Paperoni nevrotici, infantili ed superbi, immortalati in “Liar’s Poker” – il romanzo autobiografico di Michael Lewis, pubblicato da Penguin nel 1990. Uomini che non si sono mai fatti scrupoli a fregare il prossimo – soprattutto se si trattava di gente ignorante, ma che alla fine della giostra sono rimasti anch’essi con un pugno di mosche in mano. Come Richard Fuld, il CEO di Lehman Bros., che ha visto evaporare i suoi titoli miliardari sotto gli occhi. Centinaia di BSD meno importanti di Fuld sono finiti anche peggio, uscendo bastonati dai palazzi della grande finanza, con una miserevole scatola di cartone sotto il braccio.

Il professor Michael Zweig, che insegna economia a New York, ha criticato il Piano Bush come “un classico esempio di protezione degli interessi delle grandi corporazioni a discapito di quelli della working class”. Non è semplicemente l’affermazione di una testa d’uovo che magari ce l’ha a morte con l’amministrazione. La pensano così anche la maggioranza degli americani. Secondo un sondaggio Rasmussen, il 35% degli intervistati pensa che il piano aiuterà l’economia, ma un bel 30% ritiene il contrario, e il 13% aggiunge che non avrà alcun impatto sulla crisi. Da un sondaggio della settimana scorsa, emerge che solo il 7% degli elettori crede che il governo federale dovrebbe usare i fondi del fisco per puntellare le istituzioni finanziarie insolventi.