Il controsenso di un fisco regressivo per le imprese
24 Aprile 2007
Una delle parole d’ordine più viete di chi anima nel centrosinistra l’aspra battaglia contro gli italiani “popolo di evasori” è il costante richiamo all’articolo 53 della Costituzione, secondo il quale il prelievo va informato a criteri di progressività. Torneremo più volte su questo mantra, poiché esso non giustifica assolutamente l’incremento delle aliquote marginali, reintrodotto nell’ultima finanziaria. Un sistema può essere progressivo anche con aliquota unica, purché si preveda un’assai estesa no tax area sottostante, e attraverso il gioco delle detrazioni d’imposta a seconda dei carichi familiari. Ma, di questo, parleremo in un’altra occasione. Mettiamo invece al centro della riflessione un altro spetto ancor più paradossale, a proposito di progressività dell’imposta.
Perché continuare ad accettare supinamente che la progressività del prelievo sia tanto scioccamente esaltata sui redditi delle persone fisiche, quando poi sul reddito d’impresa avviene l’esatto opposto? Perché in Francia, Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi e Lussemburgo l’imposta sui redditi delle società è progressiva, e l’aliquota cresce in funzione dell’imponibile. Perché in Francia e Spagna oltre a questo criterio ve n’è uno concomitante, che nel determinare l’aliquota da applicare tiene anche conto delle dimensioni delle società in termini di fatturato? Perché in Portogallo l’aliquota per le imprese è minore per soglia di occupati? Sbagliano forse ben 7 paesi su 15 degli originali dell’Unione Europea? E abbiamo invece ragione noi soli, visto che in Italia non vi sono disposizioni per l’aliquota e per gli altri criteri di tassazione a favore delle piccole e medie imprese, malgrado il fatto che l’attività d’impresa nel nostro Paese sia effettuata in larghissima prevalenza da aziende di piccola o piccolissima dimensione, che non hanno la veste di società di capitali? E perché al contrario la realtà italiana vede il gettito d’imposta raccolta per tutti i fattori che gravano sull’impresa – in sostanza di triplice ordine: diversa tassazione dei redditi d’impresa sulle società di persone e di capitali, a seconda della forma giuridica in cui è organizzata l’attività; tassazione sulle ristrutturazioni aziendali; tassazione dei gruppi d’imprese, introdotta grazie al meritorio consolidato fiscale da parte di Tremonti – registra invece una situazione improntata alla più brutale regressività? Con la grande impresa che paga imposte secondo un’aliquota media dai sei agli otto punti inferiore rispetto a quella che grava sui medio-piccoli, e tutto ciò rispetto a una situazione generale in cui la pressione fiscale complessiva sulle aziende resta di quattro punti superiore in Italia rispetto alla media Ocse? E quando la stessa Germania, col governo guidato da Angela Merkel, dopo anni di concorrenza fiscale esercitata con successo dall’Austria che aveva un prelievo marginale sul reddito d’impresa di 12 punti inferiore a quello tedesco, ha appena deciso di abbassare il proprio di 9 punti, portandolo al 30%?
E’ assolutamente ovvio, almeno a giudizio di chi qui scrive, che l’attuale condizione italiana sia totalmente iniqua e distorsiva. E che nel determinare tale iniqua ripartizione del carico fiscale – che frena la crescita e l’innovazione italiana, ed esenta le imprese dal principio di progressività del prelievo tanto sbandierato in Costituzione e chissà perché riservato solo alle persone fisiche – abbiano concretamente e storicamente contribuito non fattori di attenzione da parte della politica alle specifiche caratteristiche del sistema produttivo italiano, bensì esclusivamente la ben diversa forza che la grande impresa ha sempre saputo, voluto e potuto organizzare nell’arena pubblica.
Basti pensare alla Dit di Vincenzo Visco, introdotta sotto il primo governo Prodi dell’Ulivo e che oggi si vorrebbe tornare a reintrodurre. Non c’è qui lo spazio per approfondire. Diciamo che Visco si riferiva allora – e continua riferirsi –a un modello “duale” di tassazione del reddito d’impresa, vicino a quello dei Paesi scandinavi, con una remunerazione ordinaria del capitale uguale al primo scaglione Irpef e allineato all’aliquota sugli impieghi finanziari nonché sui redditi da fabbricati. E’ uno dei due sistemi generali invalsi nei Paesi avanzati. Anche se chi scrive aderisce naturalmente al sistema contrapposto, quello della comprehensive income tax, l’imposta sul reddito-entrata secondo cui tutti i redditi, da lavoro e da capitale, dovrebbero concorrere a determinare la base imponibile dell’imposta personale con medesima aliquota, anzi aliquota unica e assai bassa intorno al 20%, la flat tax di cui tanto abbiamo parlato.
Ma quel che conta non è tanto lo scontro tra i due modelli. Ciò che la dice lunga è che nell’introduzione di Dit e SuperDit in Italia, 8 anni fa, la base patrimoniale e finanziaria sulla quale fu costruito il caso da manuale delle norme di attuazione era quello della Telecom Italia di allora: col bel risultato che imprese grandi e grandissime, iperfinanziarizzate e con catene di controllo all’estero, pagavano un’aliquota media su redditi pari addirittura alla metà di quella media gravante su imprese medie e piccole. E’ Confindustria, per molti versi, la radice di tutti i mali a questo proposito: prima si cambierà la struttura della rappresentanza dell’impresa in Italia, e prima i medio-piccoli capiranno che nel nostro Paese il legislatore si influenza solo avendo – purtroppo – giornali in mano e grandi banche intrecciate al proprio capitale e ai propri debiti, prima si invertirà il paradosso della tassazione regressiva che strozza milioni di piccole imprese italiane.