Il Coronavirus ha ammazzato l’Unione Europea

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Il Coronavirus ha ammazzato l’Unione Europea

Il Coronavirus ha ammazzato l’Unione Europea

19 Marzo 2020

In una guerra, per andare avanti, ognuno si aggrappa a quel che può. Deprecarlo in nome di una superiore razionalità ancor più che stupido è crudele. Per questo noi non biasimiamo né le canzoni urlate dai balconi alle sei di pomeriggio né gli arcobaleni sovrastati dalla scritta “andrà tutto bene”.

Al più, ce ne doliamo nel nostro intimo. Anche perché il diffondersi di tali manifestazioni ha fatto risaltare ancor di più l’assenza di una riflessione spirituale, di un approfondimento sul rapporto tra cielo e terra in grado d’investire con categorie non esclusivamente secolari il rapporto tra l’uomo e la natura.

Quest’assenza ci è apparsa ancor più grave perché, oltre a  rinsecchire una fonte di speranza indispensabile ad affrontare i giorni, rischia di scolorire, fino a renderla irriconoscibile la traccia per ricostruire: sì perché quando quest’emergenza passerà, sarà necessario ritessere l’ordito di una civiltà e se vogliamo che i principi cristiani entrino in questa trama, è sin da ora che va tracciato il solco.

Da ieri abbiamo qualche motivo di speranza in più. Abbiamo ascoltato il Cardinale Ruini in televisione, su un canale nazionale alle nove di sera. Ha parlato di Dio e della necessità di trovare con lui un rapporto intimo, che dia la forza di relativizzare e sopportare divieti e  difficoltà. E quella parola – Dio – nel contesto una tipica giornata di emergenza – è stata percepita come uno scandalo in grado di entrare nei cuori e spostare un’orizzonte, anche da tanti non credenti. Abbiamo poi letto la riflessione di Monsignor Crepaldi, l’Arcivescovo di Trieste che ebbe già un ruolo importante nella stesura della Caritas in Veritate. E oggi ve la proponiamo nella versione integrale. Perché è un testo forte che non ha paura di guardare alla realtà delle cose senza infingimenti. Una lettura che ci dà più consapevolezza dell’oggi e che, per questo, sarà utile anche domani a non scoraggiarci e iniziare a ricostruire dalle macerie.    

Riflessioni su un’emergenza non solo sanitaria

Niente sarà più come prima

L’epidemia connessa con la diffusione del “COVID-19” ha un forte impatto su molti aspetti della convivenza tra gli uomini e per questo richiede anche un’analisi dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa. Il contagio è prima di tutto un evento di tipo sanitario e già questo lo collega direttamente con il fine del bene comune. La salute ne fa certamente parte. Nel contempo pone il problema del rapporto tra l’uomo e la natura e ci invita a superare il naturalismo oggi molto diffuso e dimentico che, senza il governo dell’uomo, la natura produce anche disastri e che una natura solo buona e originariamente incontaminata non esiste. Poi pone il problema della partecipazione al bene comune e della solidarietà, invitando ad affrontare in base al principio di sussidiarietà i diversi apporti che i soggetti politici e sociali possono dare alla soluzione di questo grave problema e alla ricostruzione della normalità quando fosse passato. È emerso con evidenza che tali apporti devono essere articolati, convergenti e coordinati. Il finanziamento della sanità, problema che il coronavirus fa emergere con grande evidenza, è un problema morale centrale nel perseguimento del bene comune. Urgono riflessioni sia sulle finalità del sistema sanitario, sia sulla sua gestione e sull’utilizzo delle risorse, dato che un confronto con il recente passato fa registrare una notevole riduzione del finanziamento per le strutture sanitarie. Connessi con il problema sanitario ci sono poi le questioni dell’economia e della pace sociale, dato che l’epidemia mette in pericolo la funzionalità delle filiere produttive ed economiche e il loro blocco, se continuato nel tempo, produrrà fallimenti, disoccupazione, povertà, disagio e conflitto sociale. Il mondo del lavoro sarà soggetto a forti rivolgimenti, saranno necessarie nuove forme di sostegno e solidarietà e occorrerà fare delle scelte drastiche. La questione economica rimanda a quella del credito e a quella monetaria e, quindi, ai rapporti dell’Italia con l’Unione Europea da cui dipendono nel nostro Paese le decisioni ultime in questi due settori. Ciò, a sua volta, ripropone la questione della sovranità nazionale e della globalizzazione, facendo emergere la necessità di rivedere la globalizzazione intesa come una macchina sistemica globalista, la quale può anche essere molto vulnerabile proprio a motivo della sua rigida e artificiale interrelazione interna per cui, colpito un punto nevralgico, si producono danni sistemici complessivi e difficilmente recuperabili. Destituiti di sovranità i livelli sociali inferiori, tutti ne saranno travolti. D’altro canto, il coronavirus ha anche messo in evidenza le “chiusure” degli Stati, incapaci di collaborare veramente anche se membri di istituzioni sovranazionali di appartenenza. Infine, l’epidemia ha posto il problema del rapporto del bene comune con la religione cattolica e quello del rapporto tra Stato e Chiesa. La sospensione delle messe e la chiusura delle chiese sono solo alcuni aspetti di questo problema.

Così si sembra essere il quadro complesso dei problemi investiti dall’epidemia da coronavirus. Si tratta di argomenti che interpellano la Dottrina sociale della Chiesa per cui il nostro Osservatorio si sente chiamato ad offrire qualche riflessione, sollecitando altri contributi in questa direzione. L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, scritta nel 2009 al tempo di un’altra crisi, affermava che “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità” (n. 21).

La fine del naturalismo ideologico

Le società erano e sono attraversate da varie forme ideologiche di naturalismo che l’esperienza di questa epidemia potrebbe correggere. L’esaltazione di una natura pura e originariamente incontaminata di cui l’uomo sarebbe l’inquinatore non teneva e, a maggior ragione, non tiene ora. L’idea di una Madre Terra dotata originariamente di un suo equilibrio armonico con il cui spirito l’uomo dovrebbe connettersi per ritrovare il giusto rapporto con le cose e con se stesso è una sciocchezza che questa esperienza potrebbe dissolvere. La natura deve essere governata dall’uomo e le nuove ideologie panteiste (e non solo) postmoderne sono ideologie disumane. La natura, nel senso naturalistico del termine, produce anche disequilibri e malattie e per questo deve essere umanizzata. Non è l’uomo a doversi naturalizzare, ma la natura a dover essere umanizzata.

La rivelazione ci insegna che il creato è affidato alla cura e al governo dell’uomo in vista del fine ultimo che è Dio. L’uomo ha il diritto, perché ha il dovere, di gestire la creazione materiale, governandola e traendo da essa quanto necessario e utile per il bene comune. Il creato è affidato da Dio all’uomo, al suo intervento secondo ragione e alla sua capacità di dominio sapiente. È l’uomo il regolatore del creato, non viceversa.

I due significati del termine “Salus”

Il termine “Salus” significa salute, nel senso sanitario del termine, e significa anche salvezza, nel senso etico-spirituale e soprattutto religioso. L’attuale esperienza del coronavirus testimonia ancora una volta che i due significati sono interconnessi. Le minacce alla salute del corpo inducono cambiamenti negli atteggiamenti, nel modo di pensare, nei valori da perseguire. Essi mettono alla prova il sistema morale di riferimento dell’intera società. Esigono comportamenti eticamente validi, denunciano atteggiamenti egoistici, disinteressati, indifferenti, di sfruttamento. Evidenziano forme di eroismo nella comune lotta al contagio e, nello stesso tempo, forme di sciacallaggio di chi approfitta della situazione. La lotta al contagio richiede un ricompattamento morale della società in ordine a comportamenti sani, solidali, rispettosi, forse più importante del ricompattamento delle risorse. La sfida alla salute fisica si pone quindi in rapporto con la sfida alla salute morale. Serve un profondo ripensamento delle derive immorali della nostra società, a tutti i livelli. Spesso le disgrazie naturali non sono del tutto naturali, ma hanno alle spalle atteggiamenti moralmente disordinati dell’uomo. Non è ancora definitivamente chiarita l’origine del “COVID-19” e anche esso potrebbe dimostrarsi non di origine naturale. Ma anche ammessa la sua origine puramente naturale, il suo impatto sociale chiama in causa l’etica comunitaria. La risposta non è e non sarà solo scientifico-tecnica, ma dovrà essere anche morale. Dopo la tecnica, la grave contingenza del coronavirus dovrebbe far rivivere su nuove solide basi la morale pubblica.

La partecipazione al bene comune

Si richiede una partecipazione etica perché in causa c’è il bene comune. L’epidemia da coronavirus contraddice tutti coloro che hanno sostenuto che il bene comune come fine morale non esiste. Se così fosse, per cosa si impegnerebbero tutte le persone che, dentro e fuori le istituzioni, si danno da fare e lottano? A quale impegno sarebbero chiamati i cittadini con le ordinanze restrittive se non ad un impegno morale per il bene comune? Su quale base si dice che alcuni comportamenti in questo momento sono “doverosi”? Chi negava l’esistenza del bene comune o chi affidava il suo conseguimento solo a delle tecniche, ma non all’impegno morale per il bene, oggi è contraddetto dai fatti. È il bene comune a dirci che quello della salute è un bene che tutti dobbiamo promuovere. È il bene comune a dirci che la parola Salus ha due significati.

Questa esperienza del coronavirus sarà fatta lievitare al punto da approfondire e allargare questo concetto del bene comune? Mentre si lotta per salvare la vita di tante persone, gli interventi di aborto procurato non cessano, né cessano le vendite delle pillole abortive, né cessano le pratiche eutanasiche, né cessano i sacrifici di embrioni umani e tante altre pratiche contro la vita e la famiglia. Se si riscopre il bene comune e la necessità di una corale partecipazione in suo favore nel campo della lotta all’epidemia, si dovrebbe avere il coraggio intellettivo e della volontà di estendere il concetto fino a là dove naturalmente deve essere esteso.

La sussidiarietà nella lotta per la salute

La mobilitazione in atto contro la diffusione del coronavirus ha visto la partecipazione di molti livelli talvolta coordinati talvolta meno. Ci sono dei compiti diversi che ognuno ha svolto secondo la sua responsabilità. Una volta superata la tempesta questo permetterà di rivedere qualcosa che nella filiera sussidiaria non abbia funzionato a dovere e di riscoprire il principio importante della sussidiarietà per applicarlo meglio e applicarlo in ogni campo esso possa essere applicato. Una esperienza in modo particolare deve essere valorizzata: la sussidiarietà deve essere “per” e non come difesa “da”: deve essere per il bene comune e, quindi, deve avere un fondamento etico e non solo politico o funzionalistico. Un fondamento etico fondato sull’ordine naturale e finalistico della vita sociale. L’occasione è propizia per abbandonare le visioni convenzionali dei valori e dei fini sociali.

Un punto importante messo ora in evidenza dall’emergenza coronavirus è il ruolo sussidiario del credito. Il blocco di ampi settori dell’economia per garantire maggiore sicurezza sanitaria e diminuire la diffusione del virus mettono in crisi economica, soprattutto di liquidità, le imprese e le famiglie. Se la crisi dovesse durare a lungo si prospetta una crisi della circolarità di produzione e consumo, con lo spettro della disoccupazione. Davanti a questi bisogni il ruolo del credito può essere fondamentale e il sistema finanziario potrebbe riscattarsi da tante e riprovevoli dilapidazioni interessate del recente passato.

Sovranità e globalizzazione

L’esperienza in atto del coronavirus impone di riconsiderare anche i due concetti di globalizzazione e di sovranità nazionale. C’è una globalizzazione che intende l’intero pianeta come un “sistema” di rigide connessioni e incastri, una costruzione artificiale governata da addetti ai lavori, una serie di vasi comunicanti apparentemente incrollabili. Una simile concezione si è però rivelata anche debole perché basta colpire il sistema in un punto e si crea un effetto domino a valanga. L’epidemia può mettere in crisi il sistema sanitario, le quarantene mettono in crisi il sistema produttivo, questo fa crollare il sistema economico, povertà e disoccupazione non alimentano più il sistema del credito, l’indebolimento della popolazione la espone a nuove epidemie e così via in una serie di circoli viziosi ad estensione planetaria. La globalizzazione presentava fino a ieri i suoi fasti e le sue glorie di perfetto funzionamento tecnico-funzionale, di indiscutibile sicumera circa l’obsolescenza di Stati e nazioni, di assoluto valore della “società aperta”: un unico mondo, un’unica religione, un’unica morale universale, un unico popolo mondialista, un’unica autorità mondiale. Però poi può bastare un virus per far crollare il sistema, dato che i livelli non globali delle risposte sono stati disabilitati. L’esperienza che stiamo vivendo ci mette in guardia da una “società aperta” intesa in questo modo, sia perché essa si pone nelle mani del potere di pochi, sia perché altre poche mani potrebbero farla cadere in fretta come un castello di carte. Ciò non significa negare l’importanza della collaborazione internazionale che proprio le pandemie richiedono, ma una simile collaborazione non ha nulla a che fare con strutture collettive, meccaniche, automatiche e globalmente sistemiche

La morte per coronavirus dell’Unione Europea

L’esperienza di questi giorni ha mostrato un’Unione Europea ancora una volta divisa e fantomatica. Tra gli Stati membri sono emerse dispute egoistiche più che collaborazione. L’Italia è rimasta isolata e lasciata sola. La Commissione europea è intervenuta tardi e la Banca Centrale Europea è intervenuta male. Di fronte all’epidemia ogni Stato ha provveduto a chiudersi in se stesso. Le risorse necessarie all’Italia per fronteggiare la situazione emergenziale, che in altri tempi si sarebbero trovate in proprio per esempio con la svalutazione della moneta, ora dipendono dalle decisioni dell’Unione a cui ci si deve prostrare.

Il coronavirus ha definitivamente mostrato l’artificiosità dell’Unione Europea che non riesce a far collaborare tra loro gli Stati ai quali si è sovrapposta per acquisizione di sovranità. La mancanza del collante morale non è stata compensata dal collante istituzionale e politico. Bisogna prendere atto di questa ingloriosa fine per coronavirus dell’Unione Europea e pensare che una collaborazione tra gli Stati europei nella lotta per la salute è possibile anche fuori di istituzioni politiche sovranazionali.

Lo Stato e la Chiesa

La parola Salus significa, come abbiamo visto, anche salvezza e non solo salute. La salute non è la salvezza, come ci hanno insegnato i martiri, ma in un certo senso la salvezza dà anche la salute. Il buon funzionamento della vita sociale, con i suoi benefici effetti anche sulla salute, ha anche bisogno della salvezza promessa dalla religione: “l’uomo non si sviluppa con le sole sue forze” (Caritas in veritate, 11).

Il bene comune è di natura morale e, come abbiamo detto sopra, questa crisi dovrebbe indurre alla riscoperta di questa dimensione, ma la morale non vive di vita propria, dato che è incapace di fondarsi ultimamente. Qui si pone il problema della relazione essenziale che la vita politica ha con la religione, quella che meglio garantisce anche la verità della vita politica. L’autorità politica indebolisce la lotta contro il male, come accade anche con l’epidemia in corso, quando equipara le Sante Messe alle iniziative ludiche, pensando che debbano essere sospese, magari anche prima di sospendere altre forme aggregative senz’altro meno importanti. Anche la Chiesa può sbagliare quando non fa valere, per lo stesso autentico e completo bene comune, l’esigenza pubblica delle Sante Messe e dell’apertura delle chiese. La Chiesa dà il suo contributo alla lotta contro l’epidemia nelle varie forme di assistenza, aiuto e solidarietà che essa sa realizzare, come ha sempre fatto in casi simili in passato. È il caso, però, di mantenere alta l’attenzione alla dimensione religiosa del suo apporto, affinché non sia considerata una semplice espressione della società civile. Per questo assume un valore particolare quanto affermato da Papa Francesco che ha pregato lo Spirito Santo di dare “ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinché provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio. Che il popolo di Dio si senta accompagnato dai pastori e dal conforto della Parola di Dio, dei sacramenti e della preghiera”, naturalmente con il buon senso e la prudenza che la situazione richiede.

Questa emergenza del coronavirus può essere vissuta da tutti “come se Dio non fosse” e in questo caso anche la fase successiva, quando l’emergenza terminerà, applicherà per continuità una simile visione delle cose. In questo modo però si sarà dimenticato il nesso tra salute fisica e salute morale e religiosa che questa dolorosa emergenza ha fatto emergere. Se, al contrario, si sentirà l’esigenza di tornare a riconoscere il posto di Dio nel mondo, allora anche i rapporti tra la politica e la religione cattolica e tra Stato e Chiesa potranno prendere una strada corretta.

L’emergenza dell’epidemia in atto interpella in profondità la Dottrina sociale della Chiesa. Questa è un patrimonio di fede e di ragione che in questo momento può dare un grande aiuto nella lotta contro l’infezione, lotta che deve riguardare tutti i gradi ambiti della vita sociale e politica. Soprattutto può dare un aiuto in vista del dopo-coronavirus. Serve uno sguardo di insieme, che non lasci fuori nessuna prospettiva veramente importante. La vita sociale richiede coerenza e sintesi, soprattutto nelle difficoltà, ed è per questo che nelle difficoltà gli uomini che sanno guardare in profondità e in alto possono trovare le soluzioni e, addirittura, le occasioni per migliorare le cose rispetto al passato.

+ Giampaolo Crepaldi