Il Coronavirus, Weber e la scienza
12 Aprile 2020
di Vito de Luca
Oltre alle ricorrenze relative a Beethoven e Raffaello, il 2020 ricorda anche i cento anni dalla morte di Max Weber (14 giugno), oggi da rammentare più che mai di fronte alle scelte italiane nei confronti di quella che è stata denominata emergenza coronavirus. Il pensiero verso il grande sociologo tedesco, infatti, ci fa interrogare su una questione essenziale: è «scientifico» dichiarare un rapporto di causa ed effetto, tra le misure restrittive, con le relative sospensione delle libertà individuali, e l’auspicata discesa della curva dei contagiati da Sars-CoV-2? Poiché è questo rapporto causale che autorità e media stanno veicolando, presto o tardi sarebbe lecito attendersi delle pubblicazioni scientifiche – in Italia sulle riviste classificate dall’Anvur – che mostrino, incontrovertibilmente, questo nesso. Diversamente, sarebbe solo una «fattizia», direbbe Gian Battista Vico, buona soltanto per dare una base di qualche tipo all’irrazionalità. Come escludere che da sé, il virus avrebbe concluso, nel medesimo periodo temporale, così come tutto ciò che vive, il suo ciclo esistenziale? Una scienza autentica dovrebbe non tollerare, empiricamente, che altre ipotesi a quelle conculcate con insistenza in queste settimane – il riferimento va sempre a quella dinamica consequenziale tra chiusura totale del Paese e decremento di nuovi casi virali – siano possibili.
Qui entra in gioco però Weber, il Weber delle possibilità oggettive. Per Weber, appunto, è scienza quella capacità di stabilire che la scelta effettuata sia appunto davvero tale, una scelta posta di fronte ad un’alternativa (ad una o più). Non è tanto scientifico, individuare o tentare di mostrare una verità, quanto invece lo è quella di comparare possibilità a possibilità, «oggettiva» nel senso che essendo pur sempre una scelta individuale del ricercatore, risponda a criteri che soddisfino un rapporto causale. Weber, diversamente, da Dilthey, non distingue tra scienze naturali e scienze dello spirito, poiché per Weber anche le seconde sono nomologiche, scienze che hanno come scopo la formulazioni di leggi. In questo caso, la legge di un rapporto causale. Dunque, a nulla serve neanche la sterile polemica che si chiede se sarebbe stato più efficace chiudere prima quella località o un’altra, per far fronte all’epidemia. Quantomeno nel senso di ciò di cui si è discusso finora, mentre una domanda di questo tipo assume una dimensione abissalmente diversa, al pari della battaglia di Maratona che diviene una questione cruciale, nella decisione tra due possibilità: da una parte l’affermazione di una cultura religiosa-teocratica, dall’altra quella del mondo spirituale ellenico, infine vittorioso, e dall’Occidente poi ereditato. Potrà, la scienza, dimostrare l’impossibile, per non scivolare nella demagogia?