Il CPAC 2012 è stata una bella festa ma manca ancora l’anti-Obama

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Il CPAC 2012 è stata una bella festa ma manca ancora l’anti-Obama

14 Febbraio 2012

di E.F.

Kevin è un blogger del Tea Party. Uno dei migliaia di attivisti-reporter grass roots del movimento libertario statunitense nato all’indomani dell’elezione di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca. Assomiglia vagamente a Michael Moore ma solo per mole e cappelletto onnipresente. La montatura degli occhiali è da Reaganite anni ’80 (di quelle di ferro squadrate) ammorbidita da un viso paffuto, uno sguardo bonario e un occhio vispo.

Non fa mistero di preferire il candidato social conservative Rick Santorum, mentre sul mega palco del CPAC 2012, la conferenza dei conservatori statunitensi che si tiene ogni anno a Washington DC, parla invece il candidato Repubblicano mainstream Mitt Romney. “Troppo moderato e troppi i flip flop nel corso degli anni su troppe tematiche. Dall’aborto, passando per l’arm control fino alla sanità pubblica”.

Per un conservatore statunitense, ultimo custode attivo del “wise and frugal government”, “del saggio e parsimonioso Stato” di cui parlava Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della Repubblica statunitense, il CPAC è ‘Il’ raduno da non perdere. Vi si ritrova quell’America che reclama un’interpretazione letterale della Costituzione (in opposizione al costituzionalismo ‘materiale’ del progressismo giudiziario d’area Democratica); che chiede il massimo delle competenze a livello di Stati federati e il minimo per lo Stato federale.

E’ l’America profonda che si batte per il mantenimento di una dimensione pubblica della religione; che crede che il matrimonio sia un fondamento centrale della società e che si tratti dell’unione tra un uomo e una donna; che crede l’etica del valore pubblico della procreazione; che si batte contro l’aborto; che si oppone al multiculturalismo il quale rende ogni giorno che passa l’America una nazione bilingue; che reclama poche tasse e uno Stato non oppressivo.

Epifania della resistenza nel tessuto sociale della nazione americana, quella dei pellegrini legata a una morale protestante e austera, fatta di comunitarismo religioso e d‘integrità pubblica. D’indipendenza e volontariato opposta all’assistenzialismo del denaro pubblico. E’ il conservatorismo di William Buckley jr., uno dei padri ideologici della corrente conservatrice americana. Fu lui che lasciò ai posteri la sagace definizione di chi fosse in verità il conservatore: “E’ colui che si mette di traverso sul cammino della storia, urlando ‘fermati’”.

Quest’anno, più di ogni altro anno, il CPAC ha attirato particolarmente l’attenzione dei media. Per tre giorni i principali network statunitensi hanno puntato i propri riflettori sull’evento (altro che la visita di Mario Monti in America). E’ anno di elezioni e qualsiasi podio, da quello del town hall meeting fino a quello del CPAC, è passaggio obbligato per i candidati per cercare il sostegno di elite di partito, dei militanti delle varie associazioni, dei donatori.

Il clou è stato il Big Friday – da non confondere con il Big Tuesday delle primarie –, il giorno dell’intervento dei candidati Repubblicani alla presidenza al CPAC. Sale prese d’assalto da entusiasti militanti di questo o quel candidato, di questo o quel think tank a sostegno di Romney, di Paul, di Gingrich o di Santorum. Poster, adesivi, programmi, discorsi. Garbata insistenza per far sentire il peso del proprio apparato.

Sorrisi, cappellini e papillon da piccoli Ivy Leager conservatori: ragazzi glabri in volto con un mucchio di brillantina, riga a destra, farfalla Brooks bros., con spezzato blu e grigio a tenere il tutto. Tutti in una frenetica rincorsa per comunicare più degli altri e meglio degli altri il messaggio del proprio candidato, del proprio ‘cavallo’.

Nella mattinata dell’11 Febbraio Santorum ha aperto le danze, accompagnato da tutta la sua famiglia sul palco: sua moglie Karen, di cui Santorunm ricorda il soprannome: “the rock”, la roccia. Accanto a lei, schierati, sette dei suoi otto figli sul palco. Manca la piccola (Isa)Bella, ancora in cura. Reclama il suo record prima da Rappresentante e poi da Senatore dello Stato del Pennsylvania e ricorda a una calda platea che gli concede applausi de’ core, che lui più di Gingrich e Romney, è il social conservative giusto, l’uomo di cui l’America ha bisogno per restaurare il mito americano, i valori fondanti della Repubblica.

I suoi otto figli sono lì a ricordarlo; le sue scelte, le sue battaglie, i suoi voti in Congresso, il suo piano economico – la supply side economy per i redditi medio bassi, per i blue collars come dice lui – sono il sigillo della sua identità politica. Convince, riceve standing ovation Santorum, preme su sicurezza nazionale, promette di annullare l’Obamacare, l’universalizzazione del servizio sanitario statunitense a livello federale. Per perorare la causa, cita Margaret Thatcher: “Sapete qual è stato il suo unico rimpianto: non aver toccato il sistema sanitario universale britannico. Una volta che lo hai concesso, non lo puoi più prendere indietro”. “Big agenda” dice Georges, uomo non molto slanciato e dalla pinguedine ironica, in piedi tra gli astanti. Repubblicano doc del Kansas, si allontana con passo certo alla fine dell’intervento di Santorum.

Il tempo di un caffè in una saletta adiacente, e il super favorito alla corsa per la nomination Mitt Romney prende la parola sul palco. Lui è senza famiglia. Claque al seguito (solo Newt Gingrich non ne aveva), la sala lo ascolta con entusiasmo, soprattutto quando riusce a mostrare un po’ di sfrontatezza e nessun rimorso nel dirsi uomo di successo, ricco. E’ quella l’America in sala: il successo non è un male, e nessuno ha diritto a eguale risultato (ma questa è di Bobby Jindal, il governatore indo-americano della Louisiana). Mitt Romney tenta di raccontare la sua storia, che ancora manca di forza. E’ questo il segreto dell’elezione: avere una narrativa.

L’ex governatore del Massachusetts ("lo Stato più liberal che c’è in America", dice lui), è l’architetto dell’universalizzazione del servizio sanitario dello Stato della East coast, passato alle cronache di queste elezioni con la formula ‘Romneycare’. Si tratta una versione in miniatura del sistema messo in piedi dall’amministrazione Obama e dal Congresso a controllo Democratico a livello federale. Romney deve trovare la quadra per convincere di essere l’uomo giusto per battere l’uscente presidente progressista. Per accaparrarsi il voto conservatore – e al CPAC ci sono i moltiplicatori della galassia dell’industria dei bloggers conservative – Romney durante tutto il discorso ripete che appena insediatosi alla Casa Bianca, annullerà la riforma di Obama.

Se è difficile giudicare il suo vero seguito, almeno nei sondaggi del CPAC, risulta vincitore. Nello straw poll,  nel sondaggio pre-elettorale al quale ogni anno i partecipanti al CPAC sono invitati a partecipare, è Mitt Romney ad aggiudicarsi il primo posto (l’anno scorso era stato quel vecchietto libertario con tanto seguito che è Ron Paul, non intervenuto quest’anno per ragioni di campagna elettorale, benché voci volessero che il candidato avesse bisogno di qualche giorno di riposo).

Alla fine è il turno di Newt Gingrich: l’uomo che aveva guidato la "reconquista" della House of Representatives negli anni ’90 dopo più di trent’anni di dominio Democratico. Nel suo intervento al CPAC l’ex-speaker della Camera ha giocato la carta Callista, la sua terza moglie, la quale lo ha presentato alla platea. Gingrich è stato tondo, pieno di quelle che lui ama definire "bold ideas", idee coraggiose. Spesso applaudito, qualche volta omaggiato con una standing, finanche fischiato dai sostenitori degli altri candidati, ha voluto presentare al CPAC il suo dream team, una mega foto ritoccata con tutti quelli che gli hanno fornito un endorsement: da Chuck Norris, passando per il figlio di Reagan, fino agli ex-candidati alla nomination, Rick Perry e Herman Cain.

Per quanto non si possa negare la bellezza della diversità conservatrice andata in scena al CPAC di quest’anno, rimane poco chiaro come il movimento conservatore riuscirà a fare la propria parte nel processo di selezione di una candidatura forte da opporre a un Barack H. Obama pieno di soldi e in rimonta nei sondaggi.

A peggiorare il quadro, il miglioramento dei dati dell’economia – almeno quella dei dati aggregati – dà al presidente uscente una maggiore solidità elettorale. Al momento, e spiace dirlo, sembra difficile immaginare che uno dei quattro candidati (l’unico potrebbe essere il miglior Santorum dotato però di una vera infrastruttura elettorale e di fondi cospicui) possa effettivamente creare una narrativa che faccia schiodare l’attuale inquilino della Casa Bianca.