Il cyberpopulista Grillo e la crisi della democrazia

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Il cyberpopulista Grillo e la crisi della democrazia

20 Settembre 2007

Ora che la cyberpolitica è esplosa anche da noi, con il crescente e
ambiguo successo di Beppe Grillo, alimentato dal web, s’impone una riflessione
più distaccata sul nesso tra la crisi della democrazia e le nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione. Ciò è necessario per orientare il
dibattito politico in corso oltre le aspettative infondate, le spiegazioni
riduttive o le semplici demonizzazioni del ‘cyberpopulismo’, un fenomeno in cui
aspetti di novità ‘tecnopolitica’ si mischiano con elementi del populismo
tradizionale, e naturalmente con l’effetto di amplificazione ancora proprio dei
media tradizionali, televisioni e giornali, senza i quali certo lo stesso
Grillo (con il Blog e i ‘Meetuppers’) non avrebbe potuto raggiungere gli
effetti che sta maturando.

In tal senso, centrare l’attenzione sulla crisi del sistema politico
italiano è giusto in prima approssimazione, ma mette tra parentesi la novità
cyberpolitica del movimentismo che si annuncia, trattandolo alla stregua dei
movimenti di protesta tradizionali. Se si allarga lo sguardo, e si mette a
fuoco l’intreccio tra era digitale e democrazia, si può suggerire l’ipotesi che
noi stiamo assistendo (e certo non solo in Italia) a una crisi di legittimità
delle democrazie contemporanee, che nasce per ragioni indipendenti dalla rivoluzione
digitale e dalle nuove tecnologie della comunicazione, ma che queste ultime
finiscono per radicalizzare.

La politica e l’accelerazione tecnologica sono comunque legate in modo
stretto da più di mezzo secolo. Si data in genere agli anni ’60 del Novecento l’epoca
in cui l’influsso della televisione iniziò a superare quello dei giornali:
emblematiche restano in tal senso le elezioni presidenziali del 1960 negli Usa,
con il primo, storico ‘duello’ televisivo tra John Kennedy (che poi vinse) e
Nixon. La televisione appartiene però ancora ai media tradizionali,
generalisti, e il suo enorme influsso è comunque interno all’epoca della
democrazia di massa, caratteristica del Novecento.

Quarant’anni dopo, verso la fine degli anni ’90, iniziò a farsi chiaro
che il web, la Rete,
oltre a introdurre novità radicali nelle forme della comunicazione e negli
stessi legami sociali, possedeva una precisa anche se inattesa valenza
politica, come rivelò il materializzarsi della folla di Seattle nel novembre
del 1999, dopo una silente incubazione in rete, in quello che fu l’atto di nascita
del movimento no-global, il primo, significativo fenomeno dell’epoca della
cyberpolitica.

Da allora, la Rete
sta lentamente, ma inarrestabilmente avvolgendo la politica, anche nelle
relazioni internazionali e nello stesso modo di condurre la guerra, onde è
ormai comune parlare di Netwars e anche di cyberterrorismo (un fenomeno che ha
purtroppo un inquietante futuro, con la crescente digitalizzazione delle nostre
vite e degli impianti di sicurezza, militari e civili). È del resto ormai noto
l’uso della Rete da parte di tutti i soggetti politici, compresi i terroristi,
e similmente lo è l’hackeraggio politico (è di quest’estate la notizia dei
cyberattacchi cinesi al Pentagono).

È dunque del tutto naturale che anche i movimenti politici interni ai
singoli paesi, specie se privi di adeguate possibilità di accesso ai media
tradizionali, si coagulino in Rete e si sentano – magari già solo per questo –
il nuovo rispetto al vecchio. Così Grillo ha potuto affermare (sul suo Blog, 12
settembre 2007) che “la V-generation
è nata in Rete. Una mail alla volta, un commento, un link, un
trackback, un post, un forum, una chat. Migliaia di persone hanno potuto
conoscersi, riconoscersi, incontrarsi. Discutere di politica vera,
legata al lavoro, alla scuola, alla sanità, alla sicurezza, alla famiglia,
all’acqua, all’energia. La Rete
è il nuovo luogo della politica”.

Essendo la cyberpolitica un fenomeno nuovo,
mancano ancora studi adeguati per metterne a fuoco – al di là dell’emozione del
momento e degli intrecci con situazioni contingenti – la natura e i significati
possibili per le nostre democrazie. Sin dall’inizio, si è prodotta la
prevedibile spaccatura tra ‘cyberottimisti’ e ‘cyberpessimisti’: mentre i primi
esaltano l’avvento della ‘piazza elettronica’, della nuova agorà, capace
di rinvigorire l’impegno e la partecipazione civica declinanti dei paesi
occidentali, i secondi temono i pericoli di un crescente atomismo sociale e del
populismo.

Man mano che riflessioni più meditate e documentate vanno comparendo, si
fa strada un’immagine più equilibrata, equidistante dai due estremi.
Indubbiamente le nuove tecnologie offrono ottime possibilità per le
organizzazioni di opposizione e questo favorisce, in generale, un effetto di
democratizzazione. Mentre, a metà del XX secolo, i mainframe sembravano
accreditare l’ipotesi di un controllo centrale dell’informazione, la diffusione
dei personal computer ha favorito la decentralizzazione, e la connessione in
rete dei pc ha consentito poi forme inedite di comunicazione e aggregazione, a
partire però da soggetti individualizzati (un punto fondamentale, su cui
torneremo). In generale, si deve osservare che con
l’avvento della Rete il potere tende a migrare verso attori non statali (dal
momento che lo Stato ha maggiori difficoltà nel controllare la Rete, rispetto ai media
tradizionali, come la televisione).

D’altro canto, è dubbio che la rete incrementi la partecipazione: i dati
indicano che essa favorisce l’impegno civico dei già impegnati, ma non accresce
lo spazio deliberativo, e quindi delude i teorici della ‘strong democracy’. Le
prime rilevazioni sul fenomeno Grillo (come quelle compiute da Ilvo Diamanti su
“Repubblica”) sembrano confermare ciò.

Tutti comunque concordano nel porre in relazione l’avvento della
cyberpolitica con due profonde trasformazioni in atto sul piano sociale e
politico nelle nostre democrazie: da un lato, il diffondersi di un
individualismo radicale, di un’autentica polverizzazione del tessuto sociale,
che orienta sempre più l’analisi della politica e delle campagne elettorali
verso quelli che in America vengono chiamati i ‘microtrends’, cioè le tendenze della
miriade di piccoli e piccolissimi segmenti nei quali è ormai divisa la società;
d’altro lato, ma in evidente correlazione con ciò, la crisi progressiva, sempre
più evidente, dei mediatori politici tradizionali, come i partiti e i
sindacati, legati all’epoca della democrazia di massa.

Nell’indagare il nesso preciso tra questi fenomeni, e il loro riverbero
sulla politica digitale, si notano però differenze di valutazioni. De Rita ha
per esempio avanzato l’ipotesi che la frammentazione sociale, la ‘coriandolizzazione’
della società, sia proprio causata “da una crisi dei processi di rappresentanza
degli interessi, dei bisogni, delle identità e delle appartenenze”, onde la
soluzione sarebbe da cercare nella risuscitazione di associazionismo, sindacati
e – naturalmente – partiti.

Si può invece suggerire l’ipotesi opposta, e cioè che la crisi della
rappresentanza, che sta sottoponendo a dura prova le nostre democrazie, sia
causata proprio dalla crescente mancanza nella società di qualsiasi elemento di
aggregazione permanente, da una fluidificazione e contingenza crescenti delle
relazioni sociali. Mentre declinano i vincoli di tipo comunitario, i nuovi
legami hanno carattere marcatamente selettivo, sono fondati cioè sugli
interessi e i valori di ciascun individuo, hanno perciò carattere più
instabile; sono, in certo qual modo, essi stessi dei ‘network’, base di legami
sociali sempre più centrati sull’io e il suo spazio di vita individuale. In
altri termini, non è che la politica sia ‘lontana dai bisogni della gente’, ma
che tali ‘bisogni’ sono ormai talmente frammentati che rifiutano forme di
rappresentanza omogenea, mediata dai collettori tradizionali di bisogni, come
partiti e sindacati. Da qui la crescente autoreferenzialità del sistema
politico e la crisi della rappresentanza, che certo si manifesta prima e più
radicalmente laddove le istituzioni e il sistema politico siano
tradizionalmente più deboli e incapaci di riformarsi, come in Italia.

La Rete,
in questo senso, rappresenta una tecnologia che, oltre ai suoi effetti reali,
si offre come metafora di una nuova forma dei legami sociali. È chiaro che non
è la cyberpolitica a creare la crisi della democrazia; essa si limita a
rifletterla. Tuttavia, le nuove forme di comunicazione, incardinate in
tecnologie sempre più pervasive del nostro spazio quotidiano, contribuiscono
molto alla diffusione e stabilizzazione di un modello sociale e politico
caratterizzato da aggregazioni spontanee, semi-anarchiche, mediate dalla Rete,
con le quali stiamo appena cominciando a diventare familiari: il loro carattere
‘temporaneo’ è certo, ma esso non va esorcizzato come certificazione della sua
scarsa significanza, destinata ad essere presto rimpiazzata dalle forme
tradizionali di mediazione sociale e politica; molto più probabilmente, essa
vale come annuncio di un’epoca in cui ciò che è ‘temporaneo’, anche in
politica, tende sempre più a diventare ‘permanente’, cioè strutturale.

Se questo è vero, la sfida per la democrazia è molto profonda, ed è assai
difficile che da essa si possa uscire rivitalizzando le vecchie e ormai usurate
forme della mediazione politica.