Il default non ci sarà ma il declassamento del debito Usa (e di Obama) sì
27 Luglio 2011
Mancano sei giorni al possibile (ma poco probabile) default dell’America e qualora la Casa Bianca e la leadership del Congresso – quella Democratica del Senato e quella Repubblicana della Camera dei Rappresentanti – non dovessero raggiungere un accordo sull’innalzamento del debt ceiling, il tetto del debito sovrano statunitense, entro il prossimo 2 Agosto, gli Usa e tutta la sua economia potrebbero subire un colpo durissimo. In un articolo pubblicato ieri dal Wall Street Journal, l’autorevole bastione del capitalismo newyorkese, ha riportato che Standard&Poor’s, una delle “tre streghe” del rating internazionale con Moody’s e Fitch, ha alzato a 4 trilioni di dollari l’ammontare di tagli alla spesa che secondo l’agenzia di rating l’accordo tra la Casa Bianca e il Congresso dovrebbe raggiungere perché il debito statunitense non perda un rating tripla A. Qualora l’accordo tra Democratici e Repubblicani non soddisfacesse tale obiettivo, qualunque sia l’accordo raggiunto in extremis, il debito sarebbe con buona probabilità comunque declassato.
Qualora fosse effettivamente così, secondo il WSJ, si assisterebbe a una vendita sulla piazza statunitense di titoli azionari, di titoli di debito e di dollari statunitensi. Secondo alcuni analisti della Faros Trading – una compagnia di investimenti finanziari di New York – intervistati da Tom Lauricella sempre per il WSJ, hanno affermato che “si è da giorni raggiunto un punto di non ritorno riguardo il declassamento del debito. Siamo certi che gli Stati Uniti perderanno la tripla AAA”. Inquietudini queste già palpabili nel mercato dei treasury americani. Benché i rendimenti dei titoli di debito statunitensi si mantengano in questo momento bassi – il che indicherebbe una domanda ancora sostenuta – il divario tra i rendimenti dei treasury a lunga scadenza e il resto dei bond statunitensi (i primi ritenuti comunemente più sensibili ai cambiamenti di politica economica e fiscale) si sta ampliando. Un evidente segnale di nervosismo e di sfiducia dei mercati quanto alla lungimiranza dell’accordo che sarà siglato a Washington DC.
Mentre i mercati si innervosiscono, due giorni fa si è consumata l’ennesima tenzone mediatica a corollario della lunga negoziazione tra il presidente Obama – andato in prime time dalla Casa Bianca con una specie di discorso alla nazione – e lo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner che gli ha risposto di tutto punto nella stessa serata. Nel suo discorso Obama ha messo in campo un po’ di “scare tactics”, un po’ di tenue terrorismo psicologico, richiamando la possibilità del declassamento del debito americano (“Un piano di estensione del tetto al debito di sei mesi non eviterebbe il declassamento” ha dichiarato Obama) e del default (“Siamo sull’orlo di un default che potrebbe fare molto male all’economia” statunitense). La risposta di John Boehner ha tuonato più o meno così: “Il presidente vuole un assegno in bianco. Non lo avrà. E’ ora di tagliare la spesa”. Nel suo conciso intervento (quello del presidente Obama è durato 15 minuti), Boehner ha anche rilanciato la proposta di legge nota con il nome di “Cut, Cap and Balance Act”, votata dalla Camera bassa ma mai approdata al Senato a guida Democratica, che introdurrebbe forti tagli alla spesa pubblica storica portandola in poco meno di un decennio sotto il 20%. Un testo che tanto piace al senatore Repubblicano del caucus del Tea Party, John DeMint.
Con il discorso dell’altro ieri Obama ha di fatto ripreso in mano le redini delle negoziazioni politiche, dopo l’ennesimo tentativo fallito di delega al Congresso per l’elaborazione di un piano bipartisan, quello della “banda dei sei”, una proposta fatta da tre senatori Democratici e tre senatori Repubblicani che si sono messi insieme per tirare fuori un accordo compromissorio che tenesse insieme le richieste Repubblicane di taglio alla spesa e un aumento delle tasse per finanziare parzialmente l’aumento del tetto al debito. Un ircocervo morto sul nascere.
Non si sa come andrà a finire veramente. Pochi sono disponibili a fare pronostici. I più sono convinti che alla fine un accordo sarà trovato e che il default sarà evitato (fatto ‘salva’ l’alta probabilità che un declassamento avvenga comunque). Quel che però a questo punto è utile comprendere, è come Washington DC, o se piace di più, il sistema politico federale statunitense nel suo insieme, abbia potuto arrivare a questo stallo dall’esito potenzialmente devastante. Varie sono state le spiegazioni date nei giorni e nelle settimane scorse da vari analisti, giornalisti e opinionisti politici. Una spiegazione potrebbe essere l’esistenza di un ‘split Congress’, un Congresso controllato al Senato dai Democratici e alla Camera bassa dai Repubblicani. Un stato di cose che lo rende ancora più disfunzionale del solito.In più il ciclo politico non aiuta: i due partiti sono molto irrigiditi in questo momento, dentro una stagione politica fortemente polarizzata, e che hanno dato prova in questi round di negoziazioni di non ambire a retrocessioni alcune sulle proprie rispettive posizioni. In particolare il caucus del Tea Party alla Camera dei Rappresentanti è in grado di influenzare fortemente le scelte politiche di Boehner. Tutta la colpa del Congresso. E’ comunque vero che in vari sondaggi citati nei maggiori network statunitensi, la maggioranza degli intervistati sembrerebbe biasimare maggiormente la leadership Repubblicana al Congresso per il rischio default. Al grido di "Blame the Congress!" si risolve l’analisi della situzione. Troppo facile. Altri, infatti, puntano il dito sull’inesperienza da leader del presidente Barack Obama.
Sul questo punto, in un intervento sulla nota emittente conservatrice FoxNews, l’ex-sindaco di New York, Rudy Giuliani, l’ha messa giù così: “Obama pensa che delegando al Congresso, possa venire fuori un buon accordo. E’ come se io arrivato alla poltrona di sindaco di New York avessi delegato al City Council la prerogativa di definire una bozza di budget per la città. Ridicolo. Quando hai responsabilità esecutive, devi innanzitutto elaborare una strategia, da portare avanti, sapendo dove poter fare dei compromessi e dove no. Insomma devi condurre i giochi. Se il paese dovesse andare al default, il 99% delle responsabilità ricadrebbero sul presidente degli Stati Uniti. E’ lui il capo di questo paese. Un presidente deve avere una strategia. Dopotutto, questa sua incapacità non mi stupisce più di tanto. Obama è uno che nella sua vita non ha avuto alcuna responsabilità esecutiva e da un giorno a un altro si è ritrovato a gestire il budget più grande del mondo. E’ ovvio che non sia all’altezza”.
Anche un editoriale senza firma del WSJ dal titolo “Il default della leadership”(uno di quei pezzi che si sa essere approvati se non scritti dalla direzione del giornale) ha apertamente attaccato Obama e il suo discorso dell’altro ieri. Nell’articolo si accusa il presidente Obama di aver “intelligentemente, se non disonestamente, eliso la questione del rating creditizio con la questione dell’innalzamento del tetto al debito. Il presidente sa però che S&P ha dichiarato che il rating degli Usa potrebbe essere declassato anche qualora il Congresso approvasse un accordo sul debito. Obama vuole evitare qualsiasi responsabilità personale per l’esplosione della spesa negli ultimi tre anni la quale ha fatto schizzare il debito pubblico – uno di quei debiti che un giorno devi pagare – dal 40% del Pil al 72% per il prossimo anno, e in crescita. Questa sarà la vera causa del declassamento”.
Certamente la disomogeneità nel controllo delle due branche del parlamento non aiuta. Ma basta a definire il problema emerso prepotentemente durante la negoziazione del debito? Probabilmente, no. Negli ultimi sei mesi, solo 18 proposte di legge sono diventate leggi, 15 delle quali non hanno fatto altro che attribuire il nome di qualcuno a qualche palazzo pubblico. Questo è un ottimo indicatore del problema. Secondo il rappresentante dello Stato dell’Alabama, moderato e Democratico, oramai in pensione, Arthur Davis intervistato da Jonathan Allen sul quotidiano Politico.com: “Non credo ci sia nessuno negli Stati Uniti che sia disponibile a dire che il Congresso stia funzionando. Non c’è mai stata tanta partigianeria come ve n’è in questo momento”.
Gli Stati Uniti non andranno al default. Alla fine la politica troverà la quadra. Ma sarà una a breve termine. Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post, e fiero conservatore con un passato da Democratico la pensa così: “Probabilmente finirà che un accordo di brevissimo termine sarà trovato, e traghetterà il dibattito alla prossime presidenziali 2012, dove forse è giusto che avvenga una discussione del genere.”