Il destino degli Usa: invocati per le crisi poi accusati di ingerenza
09 Marzo 2011
Voci da tutto il mondo, dall’Europa all’America alla Libia, chiedono un intervento americano per rovesciare Moammar Gheddafi. Tuttavia, per aver fatto crollare il regime di Saddam Hussein, gli Stati Uniti sono stati accusati in vario modo di aggressione, inganno, arroganza e imperialismo.
Una strana inversione morale, considerando che la malvagità di Saddam superava di molto quella di Gheddafi. Gheddafi è un killer incostante, Saddam lo era sistematicamente. Gheddafi è stato troppo instabile e folle per iniziare a eguagliare l’apparato baathista: un vasto apparato su scala nazionale fatto di terrore, tortura, omicidi di massa, gasificazione di interi villaggi per creare quello che Kanan Makiya ha definito “Repubblica della Paura”.
Oltretutto, quella brutalità sistematica ha reso Saddam inamovibile rispetto al leader libico. Armati a malapena, i libici hanno già conquistato metà del Paese per conto proprio. In Iraq non c’era possibilità di rovesciare il regime senza la “spada terribilmente rapida” (ci sono volute tre settimane) degli Stati Uniti.
Ma non importa questo ipocrita doppio standard. Ora che le rivoluzioni stanno travolgendo il Medio Oriente e tutti si convertono alla freedom agenda di George Bush, non è solo l’Iraq a scivolare nel dimenticatoio. C’è finito dentro anche ciò che una volta veniva fieramente pubblicizzato come il “realismo” dei primi due anni della politica estera del presidente Obama – l’antidoto dello “smart power” al presunto idealismo strappalacrime di Bush.
Il nuovo corso obamiano ha avuto inizio durante il primo viaggio in Asia di Hillary Clinton, quando il segretario di stato ha pubblicamente minimizzato la questione dei diritti umani in Cina. L’amministrazione ha anche tagliato del 50% gli aiuti per la promozione della democrazia in Egitto. Ed ha tagliato i fondi per la società civile – precisamente quei soldi che servono alle organizzazioni di cui abbiamo bisogno per aiutare la democrazia egiziano – del 70%.
Questo nuovo realismo ha raggiunto il suo apogeo con la reticenza e la lentezza di Obama nel dire qualcosa a sostegno della Rivoluzione Verde in Iran del 2009. Al contrario, il presidente americano ha chiarito che i negoziati sul nucleare con lo screditato e omicida regime di Teheran (un “dialogo” che anche un bambino potrebbe accorgersi che non portano da nessuna parte) hanno la precedenza sui rivoluzionari democratici nelle strade – fino al punto che i dimostranti nella capitale iraniana gridavano “Obama, Obama, tu sei o con noi o con loro”.
Ora che la rivoluzione si è estesa dalla Tunisia all’Oman, tuttavia, l’amministrazione si è affrettata a tenere il passo con i nuovi governi, ripetendo il principio fondamentale della dottrina Bush per cui gli arabi non fanno eccezione rispetto alle sete universale per la dignità e la libertà.
L’Iraq, certamente, ha richiesto un prolungato impegno militare da parte degli Usa per respingere le forze totalitarie che tentavano di annientare la nuova democrazia irachena. Ma non è questo quello che ci è stato chiesto di fare con una no-fly zone sulla Libia? Nel contesto di una attiva guerra civile, prendere il controllo dello spazio aereo libico richiede un sostenuto impegno militare.
Ora, si può discutere del fatto che il prezzo in sangue e in termini economici che l’America ha pagato per stabilire la democrazia in Iraq è troppo alto. Ma da qualsiasi lato si prende la questione, ciò che è evidente è che per gli abitanti del Medio Oriente l’Iraq di oggi è l’unica democrazia araba funzionante, con elezioni multipartitiche e la stampa più libera. La sua democrazia è fragile e imperfetta – la scorsa settimana, le forze di sicurezza hanno dato un giro di vite contro dei dimostranti che chiedevano servizi migliori – ma se l’Egitto in un anno raggiungesse lo sviluppo politico dell’Iraq di oggi, potremmo giudicarlo un grande successo.
Per i libici, l’effetto della guerra in Iraq è ancora più concreto. Per quanto debbano far fronte ad un grande spargimento di sangue, sono stati risparmiati dalla minaccia di un genocidio. Gheddafi era tanto terrorizzato da quello che abbiamo fatto a “Saddam & Sons” che ha fatto un patto per cedere le sue armi di distruzione di massa. Per un ribelle di Bengasi, questa non è cosa da poco.
Eppure ci è stato detto incessantemente come l’Iraq abbia avvelenato la mente degli arabi contro l’America. Davvero? Dov’è il dilagante anti-americanismo in ognuna delle rivoluzioni che abbiamo sotto gli occhi? Sono il presidente dello Yemen e il delirante Gheddafi che si scagliano contro i complotti americani per governare e schiavizzare. I manifestanti nelle strade di Egitto, Iran e Libia hanno strabuzzato gli occhi per riuscire a scorgere un aiuto da parte americana. Costoro non stanno gridando slogan contro la guerra – ricordate il “No blood for oil”? – della sinistra americana. Perché dovrebbero? L’America sta lasciando l’Iraq senza aver preso il petrolio, senza aver stabilito basi permanenti, e lasciandosi dietro non un regime fantoccio ma una democrazia funzionante. Questo, dopo gli esercizi delle “dita viola” irachene (l’autore si riferisce alle dita intinte nell’inchiostro degli elettori iracheni, ndt) durante le libere elezioni visti in televisione ovunque, pone un esempio per l’intera regione.
Facebook e Twitter hanno certamente mediato questo tentativo pan-arabo (e iraniano) di raggiungere la dignità e la libertà. Ma la dottrina Bush ha posto la premessa.
Tratto da Washington Post
Traduzione di Alma Pantaleo