Il destino di ognuno è nella unione inquieta fra cuore e ragione

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Il destino di ognuno è nella unione inquieta fra cuore e ragione

16 Maggio 2010

Poteva accadere. Doveva accadere. Un caso, capriccioso e inconcepibile come ogni caso. Nell’accezione comune questo significa credere al destino, professare fatalismo, sottomettersi ad un progredire impietoso e inesorabile nel segno della rassegnazione. “Che giova ne le fata dar di cozzo?” si chiedeva Dante. Mentre per gli antichi il destino aveva le sembianze della vecchia Atropo, una delle tre figlie della Necessità, delle tre quella con la fama peggiore, perché a lei era assegnato il compito di recidere, con lucide cesoie e implacabile zelo, il filo che rappresentava la vita di ognuno, decretandone il momento fatale, la morte. Fine della storia. Game over.

Ma è davvero tutto qui? Un’interruzione improvvisa, uno strappo e poi il niente? O piuttosto “essere è avere un destino” e “avere un destino non è spezzare un filo, bensì ritrovare un bandolo; non è disfare una tela, ma connettersi al suo ordito” fino ad arrivare ad amare quella tessitura, espressione di un disegno intelligente alla vita, di un orizzonte che ci trascende e ci accompagna. Amor fati, dunque. Intelletto d’amore. Proviamo a partire da qui, da quello che a prima vista parrebbe un ossimoro, verificandone premesse e implicazioni. È ciò che fa Marcello Veneziani lungo l’itinerario filosofico e letterario che percorre le pagine del suo Amor fati (Mondadori), dimostrando di riuscire nel non facile tentativo di tenere insieme due termini inconciliabili, volontà e necessità, volere e essere, libertà e destino, amore e fato, celebrandone l’unione inquieta nella dolce accezione scelta come titolo del suo nuovo lavoro.

Amare il fato significa innamorarsi della sorgente e della foce, amare la realtà per ciò che è, accogliere l’avvenire per quel che sarà, così come il passato da cui proveniamo, accettare la vita, i propri limiti e le proprie responsabilità nella certezza che l’esistenza è destinazione, non un disperato viaggio verso il nulla, dove fa naufragio un vorticoso e insensato susseguirsi di eventi. Oggi, quando ormai la famiglia, l’amor patrio, il credo politico, l’etica, la fede in Dio e i valori tradizionali sembrano essersi eclissati, dissolti e tutto pare allo stato gassoso, tutto è precario, volatile, regolato dai determinismi della scienza e dell’economia è possibile ripensare il destino come l’infinita trama che lega le parti al tutto, “la spina dorsale dell’esistenza, l’asse che la orienta in alto e, attraversandola, la sostiene”?

L’autore – celebre filosofo, scrittore e giornalista che pur si definisce “un irregolare del pensiero, della scrittura e del giornalismo – risponde di sì, declinando la sua percezione amorosa del fato in una riflessione puntuale, chiara e analitica sul senso dell’esistere, fragile equilibrio della condizione umana, dai classici alla tradizione neoplatonica fino alla modernità e al pensiero a noi più vicino, da Vico a Spengler, da Nietzsche ad Heidegger, anche se lo spazio maggiore è dedicato alle donne, le amanti del fato, coloro che sul destino hanno offerto “il pensiero più denso e più vivo dell’epoca contemporanea”. E tra queste Simone Weil, Hannah Arendt, Cristina Campo, Maria Zambrano, Sylvia Plath e Flannery O’Connor.

Naufraghi da una sorta di romanticismo tardivo in cui tramontato è il sacro, e con lui forse anche l’umano, viviamo, secondo l’autore, nel tempo “dell’esodo di massa dal destino” che abbiamo sostituito con una miriade di surrogati – il potere, il lavoro, la fama, l’amore, la tecnica – illudendoci che, una volta dichiarate la fine della storia e la perdita dell’eterno, il piacere di sentirsi disormeggiati ci avrebbe restituito la libertà, ma ci ha lasciato in balia del caso e del non-senso, un tiranno più cieco e più folle, consegnandoci agli oracoli e agli oroscopi. L’impasse è a monte, spiega Veneziani, ed è ravvisabile essenzialmente in un deviato concetto di libertà, intesa come liberazione da, ossia rescissione da ogni legame umano e trascendente. Quando invece la libertà autentica si fonda su una previa obbedienza, in quanto l’uomo sarà libero a partire dalla sua dipendenza rispetto a qualcosa che lo supera e lo trascende e dal quale emerge parzialmente. Contrariamente all’opinione comune, il destino quindi non è il carcere del libero arbitrio perché il suo compiersi appartiene all’umana libertà.

L’orizzonte del destino non espropria l’uomo della sua vita inchiodandolo al reale duro e petroso, non lo affranca dall’assunzione delle responsabilità – casomai dalla nevrosi dell’esito del suo agire, successo o fallimento – ma gli restituisce l’ordito, coglie i nessi e “non lo abbandona alla pura, occasionale esperienza, chiamandolo a rispondere di sé in relazione a un disegno”. Alla teologia del carpe diem, al nichilismo gaio, alla tirannia degli istinti e degli istanti, l’autore risponde con il suo pensiero, sereno ma non quieto, rivolto al destino, manifesto dell’oggettività che libera dalla dittatura del soggettivismo e dal pensare relativo, senza fondamenti. E la sua risposta si chiama amor fati, dire sì alla vita, disporsi con fiducia a ciò che la nostra libertà non dispone, esprimere il nostro consenso profondo a quel che verrà e a quel che già ci costituisce.

Viceversa, negarsi al destino significa negare un’evidenza, dunque peccare di irrealismo, e scivolare nel regno del caso – o caos, suo anagramma – schiavi della precarietà e della indeterminatezza delle infinite possibilità, dove tra essere e il niente non c’è sostanziale differenza. Per esplicitare la sua tesi, Veneziani usa non tanto il pamphlet polemico quanto la lucida prosa argomentativa, strumento del fine saggista, e quella più immaginativa, flessuosa e ricca di suggestioni evocative, strumento del raffinato narratore, tingendo le sue meditazioni filosofiche con i tratti brucianti tipici della scrittura aforistica e sfruttando il gioco di parole caustico e il neologismo. Tuttavia, puntualizza l’autore, l’orizzonte del fato non offre una visione rassicurante né consolatoria dell’esistenza, non cancella dolori né sofferenze ma rende il significato e la persistenza delle cose e del divenire. Al gioco della vita e alle varie declinazioni del divertere, all’appello ludico di una società adolescente in rivolta contro l’identità, Veneziani oppone la prospettiva del destino, non un remissivo abbandonarsi alla sorte ma un offrirsi ad essa, mettendosi in gioco e accettando il rischio, per dare un senso alla vita.

Però è bene chiarirlo: Amor fati non è propriamente un libro cristiano, ma religioso sì, lo è, nel senso che, come ci tiene a precisare l’autore nel proemio, proponendo una lettura metafisica e trascendente della vita, questo può a ragione definirsi un testo che predispone al cristianesimo. Del resto Veneziani concepisce il destino come luogo di confine tra pensare e credere, crocevia tra fede e ragione, che collima con il senso del sacro perché è “la percezione di un disegno metafisico che guida i passi del mondo”. Così Dio è il nome che egli dà “all’Intelligenza del mondo e al suo disegno”. A questo punto resta a noi decidere tra l’essere e il niente, tra il legame e il disormeggio, tra il fato e il nulla, tra l’amore e l’indifferenza, nella speranza, certa anche se a volte intermittente, che da qualche parte si nasconda un destino e vegli su di noi all’insaputa. Un libro da leggere e da rileggere. Se ne consiglia una lettura lenta e attenta così da lasciar reagire il pensiero e il cuore. Con gratitudine.