Il discorso della Boldrini potevo scriverlo anche io
20 Marzo 2013
Se mi avessero chiesto, così su due piedi, di scrivere il discorso di insediamento di Laura Boldrini alla presidenza della Camera, credo che sarei andato molto vicino all’originale. Non lo dico per vantare le mie capacità di ghost writer a comando, ma per dire che il discorso era così prevedibile e pieno di luoghi comuni, che chiunque avrebbe potuto farlo.
Eppure vedo che quel testo è divenuto, almeno sulla rete, nei blog, su twitter, una sorta di icona sacra, da, come dice qualcuno, "retwittare, sharare, postare, emailare" e via discorrendo. Quasi che avesse un potere magico, un contagio benefico da trasmettere, una malìa da imporre sui riottosi e i cinici.
Capisco che la elezione della Boldrini (al pari di quella di Piero Grasso) abbia spezzato nella coscienza dei democrats una tale catena di sventure e delusioni che su quelle poche, scontate parole si siano proiettati sogni e voglie di rivincita. E capisco anche che la figura impacciata ed esitante della ex portavoce dell’Unhcr potesse emanare un qualche carisma salvifico dopo le tante malefatte subite dai grillini. Resta il fatto che a leggere e rileggere quel discorso si trova poco o nulla di quello che la presidente della Camera pensa di questo paese, della istituzione che presiede e di come mettere il primo e la seconda al riparo dalla radicale crisi che attraversano.
Innanzitutto è difficile definire quello della Boldrin "un discorso". Per esser tale gli manca un filo logico, il senso di un ragionamento, uno sguardo nel profondo dei problemi e una emersione alla luce delle soluzioni.
Il testo della Presidente, scarnificato ma neppure tanto, si riduce ad una serie di ringraziamenti e di omaggi, retoricamente ritmati e pensati per raccogliere l’applauso dell’aula. Nell’ordine: a Giorgio Napolitano (l’unico della triade istituzionale citato per nome), al presidente della Corte Costituzionale (nessuno sa neppure come si chiami) a Mario Monti (in questo caso se ne conosce il nome ma era meglio non citarlo), al predecessore Gianfranco Fini (in absentia), a Papa Francesco, alle organizzazioni onusiane.
Poi c’è l’elenco degli omaggi o dei "mesti" ricordi: ai disoccupati, ai detenuti, agli esodati, ai cassaintegrati, agli imprenditori in crisi, ai terremotati, ai pensionati, ai morti per mano mafiosa, al sacrificio di Aldo Moro (viglia dell’anniversario).
Infine ci sono un paio di perfetti luoghi comuni buoni per tutte le occasioni: "L’Europa deve tornare a essere un grande sogno, un crocevia di popoli e culture", "Il Mediterraneo deve diventare un ponte verso altri luoghi, altre culture, altre religioni".
Non è mancato, e come poteva, il luogo comune fatto apposta per ogni elezione: "Sarò la presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato".
Il tratto ideologico essenziale del testo boldriniano è quello vagamente sopraffattorio della "religione dei diritti" a cui tutte persone per bene non posso che inchinarsi pena essere cacciati dal cerchio magico della società civile.
Da punto di vista retorico il testo è scandito dalla ripetizione ad ogni inizio di paragrafo dal verbo futuro plurare "dovremo", ripetuto ben otto volte. Non ci sono indicazioni di come certe cose andranno fatte, di come ottenere certi risultati, di come avverare sogni e promesse: si sa solo che "dovremo" farlo. Non c’è nel discorso un tratto problematico, il sospetto che qualcuno possa avere priorità diverse o diversi se non opposti modi di affrontarle. Non c’è la sfumatura preziosa del dubbio, l’ala leggera dell’ironia, ma neppure il candore della passione e dell’ingenuità. Le parole sono passi pesanti dentro il solco profondo e dritto di un pensiero unico vendoliano a cui sia stata sottratta anche la ricerca poetica e l’afflato narrativo.
Laura Boldrini si potrà anche rivelare una ottima presidente della Camera, ma il prossimo discorso se lo faccia scrivere da qualcuno che non sia io.
(Tratto da Huffington Post)