Il discorso della Clinton all’Onu riassume la paralisi degli Usa
03 Marzo 2011
Lo scenario nordafricano e mediorientale si fa ogni giorno più complesso e variabile, ma la cosa che dà più fastidio di tutte sono quelle presunte analisi che mostrano di avere già capito tutto sin dall’inizio, anzi prima ancora che tutto accadesse, e che quindi trattano il lettore – compreso quello di buone e magari anche numerose letture – come un pupo da educare, un rozzo da raffinare, un ignorante da istruire. Ma una cosa almeno è certa. La crisi del mondo arabo nordafricano e mediorientale segna la fine definitiva della “Dottrina Bush” e il trionfo della “Dottrina Obama”. Che consiste nello stare sempre e comunque, cioè preventivamente e pregiudizialmente, dalla parte della “piazza”. Molto probabilmente solo per motivi soprattutto “estetici”: la “piazza” sa infatti di retorica democratica e di populismo (il populismo, si sa, è cattivo solo se è di destra, non se è di sinistra), di street-fighting e di controcultura, di “change” e di “we can”. Tutto qui.
La paralisi che regna nella politica estera statunitense sbalordisce ogni giorno di più e il discorso pronunciato il 28 febbraio da Hillary Clinton al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra non ha fatto che conferma,lo. Siamo progressisti, ha detto il Segretario di Stato americano, ma se ci costringete useremo la forza. O forse no. Però potremmo anche ripensarci. O ravvederci. O cambiare idea. O sbagliarci. O scusate se l’abbiamo detto. Comunque se ci arrabbiamo, vedrete. Perché dovremmo arrabbiarci, però, non lo sappiamo bene. A meno che non ci tocchiate l’Arabia Saudita.
Girano navi da guerra americane nel Canale di Suez. Per difendere chi, cosa? George W. Bush jr. era una canaglia, ci hanno detto; però aveva le idee chiare. Non ha MAI detto di voler esportare la democrazia statunitense nel mondo, MAI. Ha invece sempre avuto chiaro una concetto: la cultura autenticamente umanistica che ispira quelle scelte di civiltà che in Occidente assumono da qualche secolo la forma delle istituzioni democratiche va resa contagiosa per tutti. Perché fa bene.
Il mondo musulmano, checché ne dicano troppi, deve infatti dare ancora prova di essere in grado di maneggiare con cura la democrazia. E se non si vuole affermare che la cultura che genera la democrazia è cosa compatibile solo con l’ethos classico-cristiano occidentale, allora occorre che il mondo non-occidentale cominci a praticare seriamente quell’umanesimo, unico, che genera la cultura detta democratica. Fino ad allora sarà un grosso problema, un problemone che ogni tanto esige tutori e altre volte cordoni sanitari per impedire contagi nocivi. Bush pensava così, a torto o a ragione, che sia riuscito o meno a spiegarsi e nella pratica ad attuare il piano. Cosa voglia Obama ora non si capisce bene: certo è che qualsiasi cosa meno di quel che aveva pensato Bush per difendere il nostro mondo è pericolosa.
Per esempio, mentre tutti si concentrano sulla Libia ‒ non tanto su cosa sta succedendo davvero a quelle latitudini, ma su chi è stato amico di Muhammar Gheddafi, e in Italia è facile: tutti ‒, in Pakistan si ammazzano ministri cristiani come piovesse e dopo averlo annunciato pubblicamente per giorni, ma il mondo non se ne accorge neppure. L’idea del “world made safe for democracy” non andava bene? Va bene però quella selva oscura dove minacciosi si aggirano lupa, lonza e leone in cui ci ha traghettato il Paese più potente del mondo nell’era Obama?
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiaimstitute.it] e Direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]