Il divieto della Catalogna alla corrida è solo l’ultimo schiaffo alla Spagna
30 Luglio 2010
Gli animalisti possono smettere di esultare perché la recente proibizione delle corride nella Catalogna ha ben poco a che fare con la lotta per i diritti degli animali. Dietro il sostegno all’iniziativa di legge popolare firmata da 180mila catalani (su una popolazione di circa 7,5 milioni di persone) si cela in realtà la netta e trasparente volontà politica di cancellare tutto ciò che rappresenti l’identità spagnola all’interno della comunità catalana. L’obiettivo ultimo non è altro che la separazione da Madrid. L’abolizione, infatti, è solo l’ultimo (e più evidente) gesto simbolico della lenta e progressiva battaglia di Barcellona per l’indipendenza.
Il dibattito in Spagna sulla crudeltà della corrida è da sempre al centro delle polemiche e col tempo anche i suoi seguaci hanno incominciato a scarseggiare, soprattutto in Catalunya. Nonostante nel ‘900 questa regione fosse la culla e punto di riferimento mondiale dello spettacolo taurino, è ormai da molto che i catalani non mettono più la corrida nella lista dei loro hobbie preferiti. Basti pensare che su 1.848 feste di tori celebrate in tutta la Spagna nel 2009, appena 20 sono state organizzate in territorio catalano. Non a caso, in tutta la regione è rimasta solo una plaza de toros, la “Monumental de Barcelona”, che neppure negli appuntamenti più importanti riesce a riempire la metà dell’emiciclo (di norma occupato dai turisti).
E’ infatti da 30 anni che il nazionalismo catalano sta portando avanti il suo progetto di pulizia culturale mirato a creare un distacco da ogni emblema spagnolo. La prima vittima fu il Toro di Osborne, che nel giro di pochi mesi sparì dalle autostrade catalane “per questioni di sicurezza stradale” (la stessa ragione per cui alcuni esponenti politici hanno preteso che i tassisti togliessero le bandiere della Spagna dalle loro auto dopo la recente vittoria nei mondiali di calcio in Sudafrica). Poi è toccato alla lingua castigliana – che nonostante sia la lingua parlata dalla metà della popolazione che vive nella Catalogna è già sparita dall’ambito educativo e dal settore pubblico – e anche alle bandiere spagnole ritirate dai balconi di alcune amministrazioni pubbliche catalane. Quindi, è stata la volta della tornata di referendum simbolici indipendentisti in 44 comuni (senza valore ufficiale ma che hanno registrato oltre il 90 per cento di “sì”). Adesso è turno delle corridas, massimo simbolo della “passione iberica”.
Nel 1991 le Canarie furono le prime a proibire la particolare festa dei tori ma allora non ci fu così tanto scalpore mediatico sostanzialmente perché dietro la decisione non c’era un preciso piano politico. In Catalogna, invece, già nel 1998 era stata approvata una “legge per la protezione animale” che, di fatto, ha limitato la promozione e la celebrazione delle feste taurine, provocando la riduzione del numero di corride sul suo territorio. Molti si domandano perché, se la proibizione di questo spettacolo (che entrerà in vigore dal primo gennaio del 2012) ha l’unico scopo di mettere fine ai maltrattamenti degli animali, altre tradizioni vengano invece salvaguardate, come per esempio i correbous e i correllaç (le corse per le strade di un paesino seguite dai tori imbizzarriti) o, tanto per restare in tema animalista, la caccia o la pesca sportiva.
Fa riflettere infatti il tempismo di questa “decisione storica”, come è stata definita dai mass media di mezzo mondo. L’approvazione della legge avviene all’indomani di due sentenze i cui verdetti hanno un grande valore storico a livello nazionale e internazionale. Dopo 4 anni, la Corte Costituzionale spagnola si è finalmente pronunciata sul ricorso di costituzionalità dello Statuto della Catalogna che era stato presentato dal Partito Popolare. Tra le altre cose, il Tribunale ha giudicato incostituzionali i passaggi dello Statuto che definivano la Catalogna una “nazione” e stabilivano il catalano “la lingua veicolare e preferenziale” rispetto a quella spagnola. Il governo Zapatero – che non ha la maggioranza assoluta in Parlamento e ha fortemente bisogno dei voti dei nazionalisti per restare al potere – è subito intervenuto per garantire che “la Catalogna avrà l’autogoverno che vuole” e che farà di tutto per riuscire ad aggirare la decisione dell’Alto Tribunale.
A questo si aggiunge il fatto che lo scorso 22 luglio la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha dichiarato legittima la secessione del Kosovo. Il Tribunale ha definito “un atto non contrario al diritto internazionale” la proclamazione dell’indipendenza. Avvenuta nel febbraio del 2008, la scelta secessionista è stata accettata da 42 Stati appartenenti alle Nazioni Unite e dall’Ue, ad eccezione della Grecia, Romania, Slovacchia, Cipro e, ovviamente, la Spagna. Il pronunciamento era infatti destinato ad avere profonde implicazioni per i movimenti separatisti diffusi nel mondo. Non a caso lo stesso giorno il presidente di Erc, il terzo partito nel Parlamento catalano, reclamava l’indipendenza “non solo economica ma anche politica, culturale e sociale” sottolineando che “d’ora in poi abbiamo anche l’avvallo giuridico internazionale”.
Ciò che a questo punto si domandano gli analisti spagnoli è quale sarà il prossimo passo della Catalogna. Intanto, però, il maggior danno è già stato fatto: la decisione di abolire le corride è l’ennesima aggressione contro la libertà individuale dei cittadini e un attentato contro la diversità culturale e la pluralità di opinioni che caratterizzano la popolazione che vive nella regione autonoma. Sulla questione pesa infatti l’ombra del pericolo che, col passar del tempo, vengano emarginati coloro che non condividono il nuovo “stampo identitario omogeneo” imposto dagli indipendentisti per creare una nuova identità catalana ben lontana da quella spagnola. Un timore che, almeno fino ad oggi, sembra fondato.