Il dossettismo di don Gianni che andava a sinistra e guardava al centro

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Il dossettismo di don Gianni che andava a sinistra e guardava al centro

24 Maggio 2009

Nessuna ricostruzione storica del dossettismo potrebbe prescindere dai contributi pubblicati su Cronache Sociali da Gianni Baget Bozzo, animatore e redattore della rivista politico-culturale costituitasi come alternativa critica al sistema di governo degasperiano dopo la rottura del tripartito nel maggio 1947. Nonostante la differenza “generazionale” rispetto al gruppo propriamente dossettiano dei La Pira, Fanfani, Lazzati (con i quali egli aveva condiviso, tuttavia, anche la prima esperienza di Civitas Humana nel 1946), si devono a Baget Bozzo alcune delle principali categorie politico-ideologiche utilizzate dalla “sinistra giovane” democristiana nella dialettica interna con la classe dirigente “liberale” degasperiana. Tra queste, in particolare, la necessità di una qualificazione in senso “progressista” del “blocco anticomunista” aggregato dalla formula politica del 18 aprile 1948 (“perché il sistema storico di forze su cui essa si poggia non è democratico”), attraverso la saldatura di un “blocco popolare” tra masse d’ordine educate alla democrazia e ceti operai liberati dall’influenza comunista (evidente, in tale argomentazione, era l’uso delle categorie analitiche gramsciane, “inverate” in chiave cristiana): obiettivo politico dell’“agere contra” dossettiano diventava, negli articoli di Baget Bozzo, la “democratizzazione” interna della DC, in quanto “partito che vuole porsi non come strumento ma come guida” di un processo di partecipazione politica che consentisse di superare la frattura di legittimazione post-risorgimentale tra realtà sociale e classe dirigente nazionale.

Tale posizione di preminenza “ideologica” all’interno del gruppo dossettiano, tuttavia, non impediva per altri versi a Baget Bozzo di rapportarsi positivamente alla dirigenza “degasperiana” della Dc: si vedano, a questo proposito, anche le sue annotazioni autobiografiche ripubblicate da Il Foglio il 9 maggio scorso, per il significativo riferimento all’“affinità” personale sviluppata fin dal 1948 con i “popolari” della Dc.  Già allora  egli considerava quella derivante dal popolarismo sturziano una “classe politica in senso proprio”, senza ridurla – come facevano molti altri esponenti dossettiani – ad apparato di governo privo di specifica identità e cultura politica. Di questo gruppo dirigente i suoi articoli ricostruivano con acutezza storiografica il percorso di formazione politica alla scuola della “rivoluzione liberale sturziana”, individuando nell’“antifascismo aventiniano” il motivo di legittimazione storica degli ex-popolari al momento della ripresa democratica dopo il fascismo. Secondo Baget Bozzo, il passaggio dell’Aventino – occorre sottolinearlo – non soltanto aveva segnato una svolta “epocale” per il cattolicesimo politico (che in tal modo “usciva dal piano della pregiudiziale confessionale per porsi sul piano di una questione politica sentita come civile e morale”), ma aveva anticipato la formazione di un “Country’s party” collocato “al di fuori del liberalismo risorgimentale”, e tuttavia “dentro il mito del Risorgimento”. Questo giudizio conduceva Baget Bozzo a sostenere le interpretazioni della storia d’Italia che stabilivano una continuità evolutiva tra pre-fascismo e post-fascismo, in base alle quali la nuova centralità politica del “partito cattolico” andava considerata “il superamento democratico del Risorgimento, ma nel senso crociano di inveramento e non di negazione”: la stabilizzazione politica degasperiana, infatti, aveva trasformato il “blocco d’ordine” tradizionale in “blocco d’ordine democratico”. Agli esponenti della generazione “popolare” – De Gasperi, Scelba, Piccioni – Baget Bozzo riconosceva di essere “riusciti là dove la democrazia pre-fascista è fallita”, nella creazione di “uno Stato liberale e forte, senza reale opposizione politica a destra; uno Stato liberale come lo chiedeva la loro formazione ideologica; uno Stato forte, come aveva insegnato loro l’esperienza politica dell’origine del fascismo”.

Appare evidente, insomma, che proprio questa “strategia dell’attenzione” verso il vario mondo politico degasperiano costituiva uno dei tratti di quella “specificità” originaria di Baget Bozzo rispetto al gruppo dossettiano, già posta in evidenza dagli studi di Giovanni Tassani. Durante il contrasto apertosi tra le due generazioni democristiane dopo il Congresso di Venezia del giugno 1949, Baget Bozzo sostenne apertamente l’opportunità di una mediazione esterna con il gruppo degasperiano, invitando quest’ultimo a respingere l’annessionismo anti-dossettiano e a realizzare la “fusione delle due classi dirigenti” in nome della “complementarità” delle loro pur differenti esperienze storiche. Ma una tale ricomposizione unitaria non venne in quel momento realizzata e il clivage generazionale sarebbe da allora diventato autentica articolazione correntizia: così Baget Bozzo non svolse un ruolo altrettanto significativo nella battaglia dossettiana del 1950-1951, legata soprattutto ai temi del keynesismo economico, diradando anche la sua collaborazione a Cronache Sociali quando la rivista – nella sua “seconda serie”, a partire dall’aprile 1950 – divenne in pratica organo politico di una corrente.

È ampiamente noto come Baget Bozzo abbia finito per superare, anche nei suoi presupposti filosofico-culturali, l’esperienza dossettiana di Cronache Sociali, che sembra costituire in tal senso una parentesi conclusa della sua formazione giovanile. Nell’opera storica del 1974 sul “partito cristiano”, egli avrebbe poi interpretato la crisi del dossettismo come il definitivo fallimento di quel modello politico-religioso “eusebiano” che – nella versione filosofica di Maritain – subordinava l’azione temporale dei cattolici alla prospettiva religiosa della reformatio cristiana, presupponendo la mediazione storica del cattolicesimo politico con un mondo scristianizzato a causa dell’intransigenza antimoderna della Chiesa. Proprio il distacco da questo finalismo “ecclesiale” dell’agire politico, rivelatosi storicamente inattuabile, aveva portato Baget Bozzo alla personale “autocritica” della sintesi politico-culturale dossettiana (ma anche, in prospettiva, di qualsiasi ideologia e politica “cristiana”) e alla distinzione, dopo l’incontro con la filosofia critica di Felice Balbo, tra il piano della prassi politica “possibile” e il piano cultural-religioso della “rivoluzione” di civiltà. È altrettanto noto come questo schema concettuale abbia portato il Baget Bozzo post-dossettiano, tra il 1952 e il 1953, a sviluppare ulteriormente la rivalutazione del centrismo degasperiano, sebbene nella prospettiva di un degasperismo inteso come “conservazione dello Stato per la rivoluzione”. Ma soltanto con il superamento della “filosofia della rivoluzione” balbiana Baget Bozzo – nel 1954, sulla rivista Terza Generazione – avrebbe operato il pieno recupero di De Gasperi come sbocco conclusivo del “movimento civile dei cattolici”, nel quale lo statista trentino doveva essere collocato per aver saputo garantire da cattolico “la sostanza dell’opera storica del liberalismo, quella parte che è diventata ormai realtà ineliminabile della nazione italiana e che si manifesta appunto nel pieno movimento di tutte le sue tradizioni e di tutte le sue componenti”. Un’interpretazione storica di De Gasperi, quest’ultima, che anticipava per molti aspetti l’interpretazione “transpolitica” del degasperismo – in quanto “posizione che realizzi i valori del liberalismo, a cui, in pari tempo, i cattolici possano aderire senza restrizioni ideali” – elaborata nel 1957 su Il Mulino da Augusto Del Noce.